The Libertines - Up The Bracket
Il b-movie di fantascienza a cui stiamo assistendo da un paio d’annetti a questa parte, L’invasione dei Gruppi The dallo spazio profondo, trova (finalmente) un’ambientazione British stabile: The Libertines. I quattro ragazzetti (Pete Doherty, voce, chitarra e faccino sfrangiato da “sera prima”; Carl Barât, chitarra, voce e bella tenebrosità; John Hassall, basso e basta; Gary Powell, batteria, nerezza e assenza di capelli) provengono dai “sobborghi londinesi” (diamo per buona questa versione) e sono la commistione di tre fattori principali.
1) Trasposizione di quella che fu la leggendaria British Invasion di ormai quasi quarant’anni fa: ciò significa avere la divisina del gruppo (rossa, modello “caccia alla volpe”, abbastanza modaiola), ogni tanto mettersela e pigliare a man bassa riff dei primi The Who e financo The Beatles.
2) Trasposizione di quello che fu il punk di venticinque anni fa: ciò significa spaccare tutto, fare casino, farsi produrre il disco d’esordio da Mick Jones (chitarrista dei leggendari The Clash), suonare veloce (ma non male, come vedremo), ogni tanto cantare in modo sguaiato e ogni tanto dire «Fucking».
3) Trasposizione di quello che fu la new wave del post punk di più di vent’anni fa: ciò significa essere influenzati sicuramente dal mod revival dei mitici The Jam, ma anche dai grandi The Cure (!).
Ma veniamo all’album: inizio con Vertigo, bello incalzante, punkeggiante il giusto, veloce, urlato; Death On The Stairs, più strokesiana, votata non solo al riff ma, all’occorrenza, alla schitarratina dolce, voce ammiccante e testo preso male («So baby please kill me / Oh baby don’t kill me»); Horrorshow, bella quick anche questa, voce da Joe Strummer ma più badilato + caos generale nel testo («Laying me down to waste laying me down / Pin me up or put me down» ecc.), stacchettino psycho/surf à la The Beach Boys ma doverosamente incazzati; Time For Heroes, il pezzo per me più bello dell’album, più tranquilla, chitarre che veleggiano tra The Clash e The Cure, ricorda a tratti un qualche pezzo di London Calling ma con gli stacchetti rubati alla bellissima Boys Don’t Cry, voce molto down ma anche dolce, coretto di quasi fine canzone. Bella, bella. Dopodiché, l’altro brano pregio, Boys In The Band: inizia che sembra un pezzo di Sandinista!, ma dopo due strofe scatta un ritornello beatlesiano tipo marcetta, ritrovabile – che so – in Sgt. Pepper’s, il tutto condito in salsa rock’n’roll di fine Sessanta. Il sesto brano, Radio America, è quello che maggiormente si discosta dal resto dell’album: una ballata con arpeggio acustico straclassico, voce onirica che crea un clima avvolgente, testo amoroso e una sensazione di “suonato insieme” davvero apprezzabile: sembra (e magari è) una registrazione in presa diretta, senza la tradizionale tecnica della sovraincisione. «Uhh, uhh, uhh» finale strappalacrime, verso la dissolvenza (rarità nell’album). Per contrasto, appena dopo, urlaccio da ubriaco che precede la title track Up The Bracket: precisa nel suo essere caotica, solite chitarre ma forse un po’ meno grezze che da altre parti, batteria compassata e ancora stacchetti pregevoli, voce “telefonata” in un paio di versi, un pezzo degno di dare il titolo a ’sto bel disco. La 8, Tell The King, fila via tranquilla con il suo sound classico, ma uno stile di canto più simile a Simon & Garfunkel che non ai nomi citati fin qui, a volte la voce sembra volere risalire incazzata ma di nuovo si ammorbidisce subito, chiudono un bell’arpeggio di chitarra e la voce quasi da ninna nanna. E subito dopo, si ritorna al beat/mod di The Boy Looked At Johnny, urlato, veloce, grezzo e con concessione corettistica «La la la», con un interessante (ironico?) «New York City’s very pretty in the night time» nel testo; la decima canzone, Begging, fa una lunga (rispetto ai parametri dell’album) intro strumentale, e poi grungeggia vagamente con doppia schitarrata/doppia battuta di nirvaniana memoria, salvo poi ritornare dalle parti dei Sessanta/Settanta con assolo un po’ psichedelico nel finale. Il penultimo brano si chiama The Good Old Days e va un po’ inaspettatamente a pescare nel rock dei primi anni Settanta, «I buoni vecchi tempi» appunto. Musicalmente più articolata di quasi tutti gli altri brani (lotta con Boys In The Band per la palma di brano più “pensato” del disco), la batteria non si limita a segnare il tempo ma crea una base rumoreggiante, al cantato del refrain si sovrappongono gli «Ohh» lontani del coro, insomma, una cosa fatta bene. Il testo: se hai perso la fede nell’amore e nella musica, ricordati di ciò che dicevamo avremmo fatto domani, quelli erano buoni vecchi tempi, ma anche questi possono esserlo e lo sono. L’album termina con I Get Along, così come era cominciato, veloce, sguaiato, punk/beat, con un po’ di «C’mon» qua e là, il finale che ci vuole. Uno «Yeah» del tipo «Alé, abbiamo finito di registrare», e finisce il disco.
Allora, ’sto album mi è piaciuto molto, anche meglio di quello che pensavo: i pezzi che possono essere considerati “la stessa canzone” sono inframmezzati dalle cose più articolate, ogni brano ha la sua autonomia, ci sono brani più orecchiabili di altri ma il tutto è percorso da un filo logico, e poi questo stile di rock’n’roll è decisamente fresco (le influenze musicali diverse, e da diversi periodi, hanno fortunatamente dato vita a una bella miscela). A me, la prima parola che viene in mente associabile a questo disco è “divertentissimo”, se non addirittura “irresistibile”, nel senso che lo si può far girare un bel po’ sullo stereo senza che diventi un pacco. E poi, sarà che si chiamano I Libertini, sarà che il libretto del cd è sì tutto incasinato ma indubbiamente simpatico, sarà che con questo disco hanno mostrato di conoscere un buon pezzo di storia del rock, ma a me ’sti The Libertines garbano davvero. Gran bel disco, ascoltare, ascoltare, che mal che vada è rock’n’roll!
P.S.: per coloro che dovessero scoprirsi maniaci/collezionisti (tipo il sottoscritto): tra il singolo Up The Bracket, il singolo What A Waster (non incluso sull’album) e l’ep I Get Along, i ragazzi hanno già sfornato un bel po’ di pezzi che non compaiono sull’album. Ecco i titoli accertati: What A Waster, Mayday, The Delaney, Don’t Look Back Into The Sun, Plan A, Skag & Bone Man. Io li ho. In rete, poi, si trovano altri titoli veri/falsi, tra cover live e altro. Tra le altre cose, ho visto che ci sarebbe (ma il condizionale è d’obbligo) una cover di My Heart Will Go On, dell’usignolo canadese Celine Dion, sapete, quello stucchevole pop smelenso che faceva da colonna sonora a quel polpettone yankee di Titanic… Vedrò di scaricarlo.
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