Musica Recensione Musicale

The Datsuns – Outta Sight/Outta Mind

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The Datsuns - Outta Sight/Outta Mind

The Datsuns: quattro ragazzi neozelandesi che prendono il nome (anzi il cognome, infatti fingono di essere fratelli come i Ramones) dalla linea di auto sportive della Nissan, che negli anni ’70 spopolava in tutto il mondo (ma non in Italia).
Il loro primo disco aveva fatto gridare al miracolo la stampa musicale di mezzo mondo, che li aveva acclamati come i salvatori del rock’n’roll. A distanza di meno di due anni tornano con il disco delle conferme e non se li fila nessuno. O meglio: la stampa li aspettava al varco e adesso in molti si divertono a smontarli. Sono le ormai classiche esagerazioni di un music business a caccia frenetica di “nuovi fenomeni” da pompare prima ancora che abbiano fatto un disco (vedi Black Rebel Motorcycle Club e Jet), per poi farli a pezzi quando incominciano a darsi delle arie (The Strokes, The Libertines, The White Stripes…).
In questo alternarsi di facili entusiasmi e repentini ridimensionamenti sopravvive chi, avendo avuto la fortuna di salire sul treno giusto, riesce a non farsi bruciare dalla sovraesposizione proseguendo sulla propria strada.
I Datsuns hanno fatto esattamente questo: hanno dato un singolo (In Love) in pasto all’heavy rotation di MTV senza inflazionare la loro immagine, evitando interviste, special e quant’altro non avesse a che fare con la loro musica. Hanno lasciato che il singolo-esca lavorasse per loro, attirando gli orfani del rock’n’roll con l’organo alla Deep Purple e il furore di riff assassini e urla sguaiate. Chi fosse caduto nella trappola non poteva che restare avvinghiato. Inoltre fin da subito hanno cominciato a preparare questo secondo album, garantendosi, grazie ai primi guadagni e al lampo di fama, la collaborazione nella produzione e non solo di John Paul Jones, il bassista dei Led Zeppelin.
Ed ecco allora questo Outta Sight/Outta Mind, il disco della conferma. Conferma che i quattro neozelandesi hanno le idee chiare su come debba essere il loro sound: anche se fanno parte di una corrente di revivalisti che non inventa niente, loro sanno distinguersi proprio perché non hanno velleità da innovatori o da primi della classe. Fanno hard rock e lo fanno bene.
Il primo singolo è la traccia di apertura, Blacken My Thumb, veloce e tirata a far capire che la rabbia del primo album non si è attenuata. Forse c’erano altre tracce più rappresentative del disco, come That Sure Ain’t Right o Messin’ Around, ma chissà che non vengano proposte in seguito. La realtà è che il disco si gode per omogeneità e solidità di tutte le canzoni, che però non sono tutte uguali. Da segnalare ad esempio la melodia nostalgica di What I’ve Lost, che potrebbe essere la “canzone dell’autunno” se qualcuno decidesse di assegnare un titolo così bislacco, e la mia preferita: Hong Kong Fury.
In conclusione, un disco che forse non farà la storia del rock, ma viene bene per fare un po’ di air guitar, agitare la testa e mandare in culo il Sistema.
Rock’n’roll!

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