The Darkness - Permission To Land
La rivista Kerrang! li ha già definiti «La più grande rock band degli ultimi vent’anni». In Inghilterra vengono visti come gli araldi che riporteranno in auge il buon vecchio rock’n’roll. Si autodefiniscono «I successori naturali dei Queen», dicono di sé di essere «Frivoli, glamour, edonistici», e sentono di avere una missione: riprendere ciò che amano, con più di uno sguardo al passato, per proiettare il rock nel futuro. The Darkness, inglesi di Lowestoft, i cavalieri del revival macho/glam/hard rock pomposo, ironico e teatrale.
Requisito che sembra ormai fondamentale, ecco i due fratelli Hawkins, Justin alla voce/chitarra solista/sintetizzatore/tastiere/tutina alla Freddie Mercury zebrata o tigrata a seconda delle occasioni/tatuaggio col proprio nome e con fulmine al posto della “s” («Ma perché ti sei tatuato il tuo nome sul braccio?» «Se stavo a tatuarmi quello di tutte le ragazze…»), e Dan alla chitarra brianmayangusyounghiana/maglietta dei Thin Lizzy fissa e inamovibile. La sezione ritmica è composta da Frankie Poullain al basso/moustache da leggenda (una sorta di Village People ma rocker), e da Ed Graham alla batteria/mascara (quello che spacca un po’ meno, sarà l’aspetto un po’ troppo da rocker ’00…).
Allora, cominciando dalla fine, com’è questo Permission To Land? Grandioso. Senza esagerare, semplicemente un grandioso album di caro vecchio arena rock, da immaginarsi i quattro lanciati in un megaconcertone da cinquantamila persone, immagine che non riesco ad associare a normali gruppi del filone “The” (da cui per altro Justin e soci si chiamano – a buon diritto – fuori).
Il primo pezzo è Black Shuck, e attacca in modo degno dei migliori AC/DC. Non ci sono storie, l’influenza di due chitarristi su tutti si fa sentire un sacco nel suono di Dan Hawkins: Angus Young (AC/DC) e Brian May (Queen). Il pezzo è costruito intorno a un riff bello hard, a una base ritmica che di certo non è fantasiosa ma più solida di una roccia, e soprattutto al ridondante, esagerato, disumano falsetto spaccatimpani di Justin Hawkins. Quando canta basso, canta un’ottava e mezzo sopra la media, quando fa gli acuti, non puoi (se sei un rocker) non mimare il labiale col tuo bel braccio piegato, tremante per quanto stai stringendo il pugno. In questa canzone in particolare, il cantato piglia un po’ da Axl Rose, un po’ da Bruce Dickinson, ma la base rimane Freddie Mercury (con una spruzzata di David Lee Roth), nonostante il buon Justin abbia già trovato il suo personalissimo modo di cantare (e il timbro non lo si può imitare, lo si ha e basta). Il testo unisce le due modalità di composizione che si trovano nell’album: modalità 1, le ovvietà rockettare (sesso, droga) che più trite e ritrite non si può, il tutto con grande ironia; modalità 2, tutto l’opposto: frasi con costruzioni complesse, subordinate, termini inusuali per il rock. Convivono quindi «Black shuck, that dog don’t give a fuck» con «A nimbus of blue light surrounds a crimson paw». Poi si fa pure apposta a riuscire a far stare in metrica frasi di venti parole quando il verso precedente era di tre. Inizio al fulmicotone, si sarebbe detto.
La due è il singolo spaccaculo definitivo del nuovo millennio: Get Your Hands Off My Woman, in meno di tre minuti, fa resuscitare i morti, li ri-uccide a schitarrate e li riesuma di nuovo: il testo è geniale e volgarissimo, velato da un po’ di sessismo da rocker macho, il ritornello è in un falsetto pazzesco (da qualche parte ho letto che nel verso «Get your hands off my woman motherfucker», Justin canta «woooooooman» più alto di quanto potrebbero fare il 99% delle cantanti. Beh, è vero). Assolo raddoppiato con le due chitarre staccate di una terza (come in quasi tutto il disco). Nel singolo di questo pezzo, si ritrova anche una Clean Version, con «mummamumma» al posto di «motherfucker», e non so cosa al posto di «cunt». Il «motherfucker» finale (a cappella) è impossibile da descrivere per sguaiatezza, durata e cattiveria.
Poi c’è un altro singolo, Growing On Me, anche qui si pesta ma in modo un po’ più melodico, Justin non si risparmia («Any fool can see» non lo canta così neanche un castrato!), fa i vocalizzi, spara dei versi meravigliosi tipo «I wanna touch you but I’m afraid of the consequences». Rarità nel disco, si finisce in dissolvenza sull’assolo (un po’ da Van Halen).
A questo punto, I Believe In A Thing Called Love. La conosciamo tutti, no? Quattro quarti precisi, basso potentissimo, chitarre pesanti, voce lanciata nell’ignoto del “più acuto non si può”. Citazione (solo nel titolo) di Crazy Little Thing Called Love dei Queen, la canzone trascinante dell’album, due assoli (!), tre (!!!) se consideriamo anche quello, breve, finale.
Con il quinto brano, Love Is Only A Feeling, viene affrontata (e superata a pieni voti) la prova rock ballad: il suono è quello dei lentoni da accendino ondeggiante dei Def Leppard o dei Whitesnake del Coverdale più ruffiano. Coretto queeniano fino al midollo sui versi «Each cloud that scudded by», e backing vocals anche nel ritornello «Love is only a feeling (drifting away)». La particolarità è la chitarra acustica in evidenza, addirittura doppia, che torna su dal finto finale di canzone, come in Thank You o Over The Hills And Far Away dei Led Zeppelin. Gli assoli elettrici ci sono comunque, e in pompa magna. Grande pezzo, con efficace ricerca di un testo “a effetto” (i versi belli sono troppi per essere citati tutti. Eccone allora uno, per dire che la tizia in questione lo ha “stregato”: «An assault my defences systematically failed to withstand»).
Si torna subito all’hard più veloce con Givin’ Up, la più divertente e ironica canzone mai scritta sull’eroina. «Beh, ho rovinato praticamente tutte le mie vene / Ficcandomi quella fottuta merda nelle braccia», cantato con timbro da gallina sgozzata e solfeggio da coro (simile alla scala che, avanti e indietro, compone di fatto gran parte del primo assolo). La chitarra suona proprio come la Red Special di Brian May, ma è tutto il pezzo a sembrare davvero una rivisitazione, a quasi vent’anni di distanza, di Hammer To Fall dei Queen.
La sette è Stuck In A Rut, con riff da AC/DC, stacco centrale con voce isterica da Axl Rose e risata da matto. Si gioca ancora al “comprimi tremila parole assurde in un solo acutazzo mono-verso”, e «Stuck in a rut for eternity» è cantato davvero troppo alto. Ma come fa, in concerto, quest’uomo?
L’episodietto più divertente e da scuola superiore è Friday Night, una mezza ballata iper-puttana rock, ce la si potrebbe aspettare dai peggiori Kiss, con elenco di una serie di attività assurde dal lunedì al giovedì, per poi andare a scatenarsi il venerdì sera. Assolo raddoppiato ruffianissimo, voce ammiccante. Nulla più, rimane il divertimento dell’ironia del testo («Hey you / Do you remember me / I used to sit next to you at school»).
Il penultimo brano è il più prettamente heavy metal, lento e pesante come la migliore roba di inizio anni ’80. Love On The Rocks With No Ice è anche il pezzo più lungo dell’album, grazie ai ripetuti assoli e al finale allungato due o tre volte. È probabilmente la canzone dove più si sente la voce “normale” di Justin, che scende in quasi tutte le strofe ma non lesina sull’acuto nel cantare il ritornello e negli urletti qua e là.
Il finale è bel-lis-si-mo: Holding My Own suona elettrica, ma lenta e dolce come chi ha le palle sa, quando vuole, fare. Justin si supera, anche perché non esagera con il tortura-ugola, e modella gli acuti intorno al bellissimo suono della chitarra del fratello. Anche questa, ballata da dieci e lode, da Wembley a luci spente, ma illuminato dalle scintille di migliaia di accendini che si muovono all’unisono, per intenderci. E meglio ancora per noi non anglofoni, che possiamo fare finta che questo pezzo parli di amori romantici… E non di masturbazione (come a me invece, dal testo, sembra palese).
In poco più di trentotto minuti, come i vinili di una volta, il disco d’esordio degli inglesi The Darkness sembra essere il traghetto verso una carriera da storia del rock, senza esagerazioni. Il resto si perde in cazzate, tra chi li trova ridicoli, chi li mette al centesimo posto tra i cento dischi migliori dell’anno e chi invece li ha già eletti a Massimi Dei del Sistema Solare.
In fondo, menzione speciale per le foto da manuale del rock’n’roll incluse nel booklet, l’ultima delle quali ritrae quattro bambini travestiti da componenti del gruppo. E il bambino-Justin ha la grandiosa tutina attillata bianca e nera. Per chi si ricorda il video di The Miracle, dei Queen…
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