The Darkness - One Way Ticket To Hell …And Back
Tra le mie mani, il secondo disco dei Darkness. Il disco della conferma. Il disco della redenzione. Al primo ascolto mi sono detto: «Era meglio Permission To Land», al secondo e al terzo li ho messi pari, dal quarto ascolto in poi One Way Ticket To Hell …And Back ha cominciato a piacermi anche di più del suo predecessore.
Al basso non c’è più Frankie Poullain, lo sostituisce Richie Edwards, ex tecnico della chitarra di Dan Hawkins. La prima volta che ho visto una sua fotografia ho pensato: «Ma è pelato!», poi però ho letto sul sito ufficiale che, dovesse scegliere tre dischi da portare sulla classica isola deserta, opterebbe per tre dischi dei Queen degli anni ’70. Ed è subito diventato il mio pelato preferito.
Il disco è prodotto da Roy Thomas Baker, credo che se la giochi con Phil Spector per la palma di più grande produttore della storia del rock, avendo nel suo carnet gruppi come Queen, The Rolling Stones, The Who, Free e tanti altri. Il buon Roy non conosce il significato della parola “minimale”. Quindi, fiato alle trombe, ma anche al sitar, all’organo Hammond, al Mini-Moog, ai sintetizzatori di vario genere, ai rullanti da banda, al triangolo, e soprattutto all’orchestra, in evidenza almeno in un paio di brani. Dato che non ci facciamo mancare nulla, perché non reclutare un paio di musicisti addizionali, per gli intermezzi di cornamusa e per l’introduzione del disco? Ma sì, c’è spazio per tutti!
Argomento trasversale: i testi. I testi dei Darkness sono assurdi. Quindi, per ogni canzone, citerò un breve stralcio.
Prima traccia composita: su un tappeto vocale si innesta un minuto di assolo di… Flauto di Pan (ecco la bizzarra introduzione), che crea un’atmosfera da film western. Silenzio, e pochi secondi nei quali si sente qualcuno sniffare una riga di cocaina. Poi, One Way Ticket, singolo apri… Pista (ah ah ah!), con un grande riff, secco e irresistibile, il cowbell (che a me fa impazzire) al posto del charleston per tenere il tempo, l’assolo di sitar by Justin Hawkins. Siamo già all’inferno. Torneremo sani e salvi? Vedremo. «I’m sure I upset someone but my memory has chosen to omit it».
Knockers è hard rock che fa il verso agli Aerosmith di Get A Grip, non foss’altro che per la chitarra slide alla Joe Perry. Justin canta in un falsetto impossibile. L’assolo è un dialogo fra sintetizzatore e chitarra. «I love what you’ve done with your hair / Oh yeah».
Puro glam metal anni ’80 è invece Is It Just Me?, roba dura e ammiccante allo stesso tempo, alla Mötley Crüe. Il refrain è ruffianissimo, potrebbe essere la colonna sonora di una sequenza di combattimento di Ralph Macchio, o di una giornata travolgente di Micheal J. Fox. Ho reso l’idea? «You’re in the Vatican, I’m in the Yemen».
Oh, il pezzo romantico! Dinner Lady Arms è come una canzone dei Rainbow dopo la svolta pop rock. Justin Hawkins è un fenomeno, il falsetto spaccabicchieri può risultare detestabile (per me è fantastico), ma c’è un dato: quest’uomo, con la voce, fa quello che vuole. «But I’m happy to be your Mr. That’ll Do For Tonight».
I toni si ammorbidiscono ulteriormente con la attesissima power ballad, che porta il superbo titolo di Seemed Like A Good Idea At The Time, ed ecco la produzione corale di Baker: archi pomposi, sovraincisioni vocali, chitarre triplicate… Ridondante, barocca e tacciabile di cattivo gusto. Tutti gli ingredienti giusti per una splendida ballata. «Such a very very good idea at the time».
Siamo alla seconda metà del disco, su vinile è la seconda facciata, …And Back. La risalita comincia con una lunga introduzione strumentale di chitarra, che sembra uscita da A Night At The Opera dei Queen e che deve tutto alle divagazioni sonore di Brian May (citato nei ringraziamenti, assieme a Steven Tyler ed altri). Poi attacca Hazel Eyes, che all’inizio sembra seria, ma poi assume connotati assurdi con la marcetta scozzese (con tanto di cornamusa) e il riff pesante. Si parla di una storia d’amore con una ragazza scozzese, dai tipici occhi color nocciola. «I had never seen a set of eyes more hazelerer» (triplo comparativo di maggioranza. Justin è il più migliorissimo).
Bald inizia omaggiando Hells Bells degli AC/DC, poi è heavy metal lento e cupo, come i migliori pezzi di Ozzy Osbourne degli anni ’80. Con questo brano Justin esorcizza la paura di diventare calvo, un dramma che ci può colpire tutti, in qualunque momento. «Bald, slap headed and hairless / Bald he is destined to be / Bald, well tonight thank God it’s him instead of me».
Ma il pezzo più infantile in assoluto è Girlfriend, un rock veloce e scemo pieno di archi e fiati. «You were my girlfriend, now you’re my ex…».
I concilianti suoni di un giardino inglese d’altri tempi, con gli uccellini e l’acqua che scorre, sono interrotti da un tuono lontano… English Country Garden è uno splendido pezzo pianistico, rapido e travolgente come Don’t Stop Me Now dei Queen (e con questa fanno quattro citazioni… Sono un maniaco. Ma almeno me ne rendo conto), e non è un caso, visto che per registrarla Justin si è servito dello stesso pianoforte che Freddie Mercury utilizzò per Bohemian Rhapsody. Non so se mi spiego. «I carved U 4 Me in the bark of a tree / In an English Country Garden».
Il ritorno si conclude più in là di quanto immaginassi: non solo si giunge in superficie, ma si tende addirittura verso il cielo, verso il paradiso, con Blind Man, un bellissimo brano, intimista e malinconico, che a tratti suona come gli ultimi Beatles, quelli dell’album Let It Be. Una chiusura così, proprio, non me l’aspettavo. «You can’t cry forever».
Grande disco (l’unica pecca è che è un po’ troppo breve, visto e considerato che di pezzi pronti ce ne sono, ma saranno pubblicati come b-sides), altre dieci gemme che rafforzano lo stile del gruppo e che, rispetto al primo album, hanno il merito di essere più varie e sfaccettate; molto semplicemente, in questo momento, nessuno nel mondo rockeggia come i Darkness.
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