The Darkness - Motorheart
A me Justin Hawkins è simpatico perché esagera, sempre. Stavolta ha dichiarato: «Motorheart spacca più di qualsiasi cosa abbiamo mai fatto prima. Mi rende felice e orgoglioso alzare il volume della canzone e far tremare il mio chalet svizzero fin dalle sue fondamenta. Dan ha fatto un lavoro fantastico sulla produzione. Ti staccherà la faccia, ma il tuo cranio sorriderà», e tutta una serie di minchiate del genere. Fa bene ad autoincensarsi, Justin, anche perché nessuno lo farà al posto suo, e non perché non ci sia del merito, ma perché certa critica ha semplicemente smesso di occuparsi della sua band e del suo «incommensurabile lavoro di stravaganza rock’n’roll».
Sui quattro cavalieri dell’arockalisse che rispondono al nome The Darkness aleggia costante la presenza di un equivoco: talune persone scambiano il senso del divertimento che da sempre accompagna il gruppo per un’ironia – o, peggio, demenzialità – che con l’attitudine della band hanno poco a che fare. Per la verità, hanno poco a che fare con la band stessa. Dal punto di vista del lavoro, il combo inglese guidato dai fratelli Hawkins si prende dannatamente sul serio, se, come è vero, questo nuovo album, Motorheart, l’ottavo (settimo in studio), arriva a due anni dal precedente – Easter Is Cancelled, del 2019 – e conferma la prolificità della band, che alterna album e tour praticamente senza sosta. Non è che Motorheart aggiunga granché ai precedenti capitoli del gruppo di Lowestoft, e mi pare che stavolta sia necessario qualche ascolto in più del solito per memorizzare riff, testi, ritornelli, melodie e tutto il resto. Dall’altro lato, è però vero che di rado le sonorità hard rock darknessiane hanno virato così tanto verso territori heavy metal – mi vengono in mente certi episodi in particolare, tipo la stessa title track – e che, curiosamente, alla fine del disco arriva inaspettato un tentativo new wave con il brano Speed Of The Nite Time, che ricorda le chitarre fredde e darkeggianti di formazioni dei primi anni Ottanta inglesi di estrazione del tutto lontana dal rock classico. Ho scritto che il brano conclude l’album, ma – come spesso accade – l’edizione cd di Motorheart è disponibile anche in versione deluxe, con tre canzoni aggiuntive, che fanno passare il numero di tracce da nove a dodici. E anche qui, il fatto che la nuova fatica darknessiana esca in digitale, su cd, sul rinato vinile e addirittura su cassetta (questi ultimi due formati sono disponibili anche in un acceso arancione) ci dice che i quattro del Suffolk continuano a immaginarsi e sentirsi salvatori del rock anche attraverso la distribuzione della propria opera su tutti i supporti possibili e immaginabili. Passando alla produzione artistica, il minore e meno sopra le righe dei fratelli Hawkins, cioè Dan, si conferma tanto bravo al mixer quanto in veste di chitarrista: i suoni di Motorheart sono grossi e potenti, accesi e roboanti, senza che ciò oscuri la sensibilità pop leggera e illuminata del songwriting di Justin, il cui falsetto frantumacristalli è sostenuto da un’eccelsa sezione ritmica hard rock, formata da quel ganassa di Frankie Poullain al basso e dal sempre più convincente Rufus Tiger Taylor alla batteria (un giorno mi sentirò legittimato a smettere di ricordare che stiamo parlando del figlio del batterista dei Queen, tra i numi tutelari imprescindibili per la band di tamarri dell’Anglia orientale).
Da qualche parte ho letto un recensore definire Motorheart l’album darknessiano più stupido in assoluto dal punto di vista dei testi: per fare un esempio, il singolo che dà il titolo al disco, Motorheart, parla di amore e di coito con una partner cibernetica. Personalmente, a me fa più ridere l’apertura di Welcome Tae Glasgae, per come il titolo – già nello spelling – mette in luce tutta l’allegra brutalità dell’accento scozzese. Ma i pezzi sono tutti fichi, da It’s Love, Jim a The Power And The Glory Of Love, dall’altro singolo Jussy’s Girl alla queeniana Sticky Situations, da Nobody Can See My Cry all’hard rock à la Thin Lizzy di Eastbound, dalle tracce bonus – ecco altri titoli geniali – You Don’t Have To Be Crazy About Me… But It Helps e It’s A Love Thang (You Wouldn’t Understand) (di nuovo uno spelling errato che mi intriga) fino ad arrivare alla splendida ballata di chiusura, So Long, con la chitarra acustica in evidenza.
Tra le canzoni che preferisco c’è The Power And The Glory Of Love, che suona come degli AC/DC sporcati di lustrini (cioè i primissimi AC/DC, in fondo) e che potrebbe stare sull’eterna pietra di paragone con cui Justin e compagnia devono confrontarsi ogni volta, cioè il folgorante esordio Permission To Land, datato 2003. Se un pezzo sembra di Permission To Land, allora spacca. Anzi, tutto il concept di Motorheart sembra voler un po’ richiamarsi a quel primo grandissimo album, il cui immaginario si basava in larga parte sulla fantascienza di quart’ordine, tra piovre giganti, raggi gamma e dinosauri che facevano sesso con astronavi. Sulla copertina illustrata di Motorheart, Justin – ritratto di spalle – è approdato su un pianeta alieno e resta attonito davanti a una gigantesca e pettoruta donna robot che ha uno schermo abbagliante al posto della testa, mentre gli altri tre sfrecciano per aria su moto volanti retrofuturiste in attesa di atterrare sulla superficie, sulla quale praticamente ogni cosa ha sembianze falliche. È tutto ciò visto, rivisto e stravisto? Sì. Possiede la band una propria cifra stilistica che rende il risultato, in qualche misura, originale? Stessa risposta: sì.
Chi dovesse aver letto alcune delle mie precedenti recensioni del gruppo (si trovano tutte qui, sulle pagine di Cremonapalloza) sa che il voto massimo è elargito praticamente sulla fiducia e per stima: non penso davvero che ogni tassello della discografia darknessiana sia un capolavoro, ma penso che l’esistenza di un gruppo simile sia in sé preziosa, nel senso che non trovo davvero altre formazioni che portino avanti con tale convinzione l’idea di un certo rock da stadio, che assimila ingredienti dal glam, dall’art rock, dall’hard, dal prog e, volendo, dal power pop, e che tenga in piedi la baracca con una coerenza ormai quasi ventennale. Sotto questo aspetto, non ci sono The Struts che tengano: alla band di Luke Spiller riconosco il merito di aver fatto conoscere il glitter e gli abiti di Zandra Rhodes a una nuova generazione di giovani fan, ma i pavoni del nuovo glam sono troppo belli, hanno avuto troppo culo, sono già troppo sputtanati con i giri giusti della gente famosa. Credo sia incontestabile: se metto a confronto i due nomi, al concetto The Darkness associo sensazioni più vere. Anzi, c’è di più: anche se il nome è The Darkness con il The, il quartetto inglese non ha mai davvero fatto parte del carrozzone rock che sembrava dover riportare in auge le chitarre elettriche – ma ci riuscì solo in parte – nei primi anni Duemila. Justin e compari hanno sempre intrapreso una strada personale: adesso che non sono più così celebri e che non suonano davanti a platee gigantesche (ma comunque per qualche migliaio di persone a concerto sì, mica poco), i (non più) ragazzi dimostrano di non avere alcuna intenzione di modificarsi per venire incontro ai gusti del momento, nemmeno se ciò fosse concesso senza allontanarsi dall’ambito rock. Tanto di cappello, quindi. Anzi, ora che noi veri fan della prima ora non dobbiamo più convivere con la loro notorietà, è solo meglio: possiamo incrociarli più facilmente prima e dopo i concerti e farci quattro risate con loro. Quindi, finché i nostri idoli pubblicheranno ottimi album di rock scritto bene, suonato bene, prodotto bene e soprattutto preso bene, non avremo nulla di cui vergognarci e continueremo ad amare – di un amore sfacciato – quello sfavillante circo delle meraviglie che si chiama The Darkness.
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