Sydrojé - Madame Livido
I prolifici Sydrojé pubblicano il secondo album, Madame Livido, a un anno esatto dall’esordio. Il risultato è un disco migliore del precedente, per produzione e intensità.
L’anima classicamente grunge e quella intimista, espresse dall’alternanza tra brani duri e ballate (convincono maggiormente i primi), sono comunque collegate dalle liriche cantautorali del leader, Stefano Scrima. A livello di qualità, i testi delle canzoni più pesanti non hanno nulla da invidiare alle parole scelte per i pezzi lenti.
È proprio lo stile compositivo di Stefano a scatenare le critiche più feroci, e d’altro canto ad appassionare sinceramente lo stuolo sempre maggiore di fedelissimi del gruppo. Inutili le perifrasi: nel disco si parla di profondo disagio esistenziale, morte, suicidio. Il filo conduttore è fin troppo chiaro, ma, a differenza di quanto riscontrato nel precedente album Né Vivere Né Morire, qua e là baluginano flebili spunti di positività e speranza.
Dopo i calci in culo di inizio disco (il titolo del primo pezzo è eloquente: Giurami Che La Vita Non È Questo Schifo Di Vivere), si passa alla più leggera Pioviggina, che ci porta nel mondo dei ricordi del narratore, in qualche modo colto dalla sindrome di Peter Pan. Truccare I Lividi torna a picchiare duro, con quattro accordi che più grunge non si può. I riferimenti si collocano tra il mistico e il consumistico, e l’invocazione non può essere che «Salvami». Poi Piano Piano, ballata in cui la guarigione («Piano piano starò bene») convive però con una tragica realtà. Uno dei versi più significativi è senza dubbio «E tu chi sei per dire che quello che dico non lo provo?», che sembra una risposta alle sporadiche accuse di compiacimento e/o posa. Basta ascoltare i dischi per fugare ogni dubbio: Stefano Scrima, Andrea Carasi (basso) e Stefano Muchetti (batteria) devono cantare e suonare così, ne hanno la necessità, come di mangiare e dormire. Quinta traccia, la fulminea Colpiscimi A Tempo, senz’altro destinata a diventare il nuovo cavallo di battaglia dei live. Nella dolce e fischiettata Tu Sei Mia c’è sì un po’ di magone, ma ci sono soprattutto voglia di vivere, di correre, di stare bene, di farsi venire le farfalle nello stomaco e le gambe tremolanti. E il fatto che il brano si perda in qualche lungaggine sul finale non dispiace, vista la piacevolezza di questa pausa di metà disco. Distorta e fastidiosa arriva Più Forte Che Posso, poi c’è Gioia Troia, che gioca ipnoticamente, oltre che con le due parole del titolo, con le quasi identiche «Scovata» e «Scopata». Musicalmente è il pezzo più ibrido del disco: base ritmica compatta, ma arpeggio acustico. Jeans è una breve ed efficace critica alla società materialista e conformista. «Vendo qualche pezzo del mio corpo o del mio orgoglio / Così mi compro delle scarpe nuove / O una felpa nuova / O una faccia nuova / Così mi compro dei jeans nuovi con la scritta d’oro proprio sopra al culo / Mi costa tanto / Ma pago tutto senza sforzo / Paga il tuo papà morto / Sparisci». Stai Bene Senza Me, sommessa e drammatica, presenta una morbida scivolata slide, caso unico nell’album, e chiude con la cassa della batteria che simula il battito di un cuore che si arresta. Penultimo, il mio pezzo preferito, Ti Amo Pazzo. Nelle strofe, complici la crudezza della chitarra, il basso quadrato e la batteria martellante, è (forse involontariamente) punk tiratissimo, mentre i ritornelli distorti danno un tono ballabile al brano. E il testo è tutta una dedica al «Diamante pazzo» Syd Barrett e al «Bambino biondo» Kurt Cobain. Il debito che Stefano sente di avere nei confronti dei due è talmente forte da sfociare nella citazione fedele degli ultimi versi mai pronunciati da Barrett nei Pink Floyd («What exactly is a dream? / And what exactly is a joke?», parole finali di Jugband Blues) e dell’arcinoto inno autodistruttivo «I hate myself and I want to die» di Cobain. Il tono della canzone è quasi protettivo: le scelte di vita dei due artisti, anche quelle sbagliate, sono difese strenuamente, come quelle di due amici. Alla fine si ripete il verso-chiave, «Voi siete sempre più vivi». Il disco si chiude su un quadretto di suggestioni, piccole cose, frammenti di vita riuniti sotto l’enigmatico titolo Io So Correre Con I Sandali Slacciati. Alla fine resta la batteria di Muke, poi il silenzio.
La produzione, a cura di Kruz, è ottima per due motivi: da un lato l’alta qualità audio, una novità per i tre ragazzi, finora costretti a registrazioni casalinghe o giù di lì; dall’altro la capacità di restituire la violenza dell’esecuzione e di non snaturare l’approccio grezzo del gruppo. Insomma, si sente bene, ma non sembra di plastica. In copertina un disegno di Stefano, che ritrae un essere deforme, mezzo donna e mezzo animale, che suscita più compassione che repulsione. All’interno una splendida fotografia, che cattura in un istante l’energia nervosa di un concerto dei Sydrojé.
Gran bell’album e voto altissimo, non nascondo l’amore che nutro per questo gruppo, per me uno dei più credibili degli ultimi dieci, quindici anni, a Cremona. Avanti così, ma c’è da migliorare ancora, soprattutto in termini di sintesi.
Commenta