Rumori Di Fondo - Rumori Di Fondo
I rumori di fondo sono quelli che senti quando accendi lo stereo ma non hai ancora messo il cd. I rumori di fondo sono il fruscio di un vinile nel giradischi. I rumori di fondo sono il suono del silenzio di quando appoggi l’orecchio a un tavolo e batti con il pugno.
I Rumori Di Fondo sono quattro ragazzi di Cremona, giovanissimi (tra i 15 e i 17 anni), che hanno deciso di chiamarsi così perché sono alla ricerca di un suono, di un accordo. Il loro è un tentativo di scoperta di qualcosa che sia direttamente collegato alla musica da cui provengono, il grunge o il metal, l’hard rock o il noise, ma che allo stesso tempo la trascenda e si faccia “altro”. Cosa? I Rumori Di Fondo in primis stanno a mano a mano cercando di capirlo.
Ed è per questo che, una volta di più con questo gruppo, risulta davvero complicato usare un termine che definisca la musica che esce dal loro bell’album di esordio. Ma poiché non ho certo paura delle parole, e assodato il fatto che le catalogazioni lasciano il tempo che trovano, posso provare a dire che il loro rock è grunge in partenza, hard rock o anche heavy metal negli assoli, progressive rock nei cambi di ritmo e noise rock nelle frequenti sperimentazioni strumentali.
Via il dente, via il dolore: la registrazione, effettuata in analogico su audiocassetta e solo successivamente trasferita su cd, è deficitaria, non tanto per quanto riguarda le chitarre e il basso, quanto invece per batteria e voce. Ma la band stessa se ne “scusa”, nel curatissimo booklet. E il rammarico principale è proprio questo: un disco totalmente autoprodotto, che trasuda impegno da tutti i pori, musicalmente davvero valido, con una grafica di copertina e un’accuratezza estetica che non hanno niente da invidiare a un disco da major (e non esagero, semplicemente non ci si rende conto della differenza), deve purtroppo, per cause di forza maggiore, sottostare a una bassa fedeltà imposta.
Ma lasciamoci alle spalle tutto ciò per approdare all’ottimo versante musicale: per prima cosa è necessario evidenziare la partecipazione di ogni componente, stando sempre ai credits dell’album, all’inserimento dei “rumori di fondo” che incontreremo in vari pezzi del lunghissimo disco: dieci canzoni, più di un’ora di musica, con punte di dieci minuti e mezzo abbondanti per l’ultimo brano e di nove minuti di media per i brani centrali. L’elevata durata media deriva quasi sempre dall’inserimento di assoli hard rock o noise molto distorti, assieme a pause o stacchi più melodici.
La Chimera Ubriaca comincia con un assolo di batteria di Muche, sul quale si innestano i miagolii della chitarra in slide, poi entrano la chitarra “pesante” e il basso, per ultima la voce. L’alternanza pesantezza/melodia è scandita dal suono delle due chitarre (davvero pregevole lo stile armonico di una in contrasto con la potente base “heavy” dell’altra), nonché dall’impostazione vocale di Stefano, ora più melliflua, ora più cattiva, ma sempre parecchio tirata.
Massa Spettrale attacca con il basso, lugubre, molto dark. Il brano ha una sua struttura in cui le varie parti (lento, veloce, cantato, strumentale) si succedono con frequenti cambi di ritmo, e dopo la parte più cantata – tra l’altro, i testi sono sempre decisamente ricercati – parte un lungo assolo e i quasi sette minuti filano via che sembrano tre, grazie alla varietà dei suoni e dei tempi.
Non Ha Importanza, nell’intro chitarristica, ricorda un po’ i Dream Theater, poi si evolve in un rock sonico come i Marlene Kuntz dei brani più tranquilli, più lento, dunque, dei due precedenti brani, e se vogliamo più “triste” e meno rabbioso; anche qui si termina su un assolo.
Nervósia, con l’accento sulla “ó”, ha uno strano incipit strumentale, poi parte rabbiosa, disturbata, come il titolo suggerisce. E anche la voce di Stefano si adatta al clima “psichiatrico”, cantando, con tono al limite del sano di mente, «Non toccarmi, stai lontano» e sillabando «Nervósia» urlando sempre più a ogni refrain.
Irraggiungibile: gli accordi sono Nirvana puri, ma lo stile del pezzo è più tetro, il testo esistenzialista e la voce depressa si intersecano perfettamente sulla base sonora che si regge principalmente sul basso. Nemmeno qui manca l’assolo, ma, in sintonia con il clima generale del brano, è un assolo meno complesso tecnicamente rispetto ad altri, ma più emozionale. «La felicità mi annoia», su questo elogio della tristezza si chiude il cantato, ma il brano prosegue in divagazioni presomal-chitarristiche per un altro minuto e mezzo buono, e la fine vera arriva all’improvviso, sospesa sull’accordo.
Fuori Dal Regno comincia con un’intro strumentale di più di due minuti. Al rumore di fondo, il sibilo del vento, si sovrappongono le colombine («Piccole colombe di onice, che sbattendo una contro l’altra producono un suono abbastanza dolce, ma duro allo stesso tempo – sono quegli aggeggi che si mettono sopra alle porte, e che suonano quando queste si aprono». La spiegazione è del chitarrista Marco). Dicevo, a minuti 2 secondi 15, entra sugli strumenti (fino a quel punto distorti ma “mansueti”) la voce, che da subito non fa nessuno sconto, e in questo pezzo, per tornare al giochino delle definizioni, il riff è l’esatta sintesi di grunge e metal (o forse, azzardando al massimo, di Pearl Jam e Metallica). Sui potenti accordi parte (qui sì) un assolo malmsteeniano velocissimo, molto tecnico e del tutto “scollegato”, tanto che per giungere alla strofa successiva c’è un “taglio” abbastanza netto e la canzone riprende, salvo essere interrotta da un altro paio di grandi assoli, mentre la voce (di pari passo con la precedente Nervósia) urla, al massimo dello sguaiato: «Fuori da qui, fuori dal mio regno». E ancora le colombine in chiusura. Fine a 8 minuti e 17.
Pozzo Dei Giganti, altro brano oceanico con i suoi 9:46, comincia molto lenta, sui suoni di chitarra e ancora di batteria, e anche qui la voce entra a brano decisamente avviato. E alla calma apparente si sostituisce quasi subito la rabbia incontrollabile, in questo pezzo le urla sono quelle più devastanti, ma i tempi dilatati danno nuovamente tregua all’ascoltatore con il ritorno della quiete dopo la tempesta ma prima della successiva. Che, fatalmente, arriva. Un bel contrasto sta semplicemente nel verso «Sussurrato» cantato in un modo che tutto è fuorché, appunto, sussurrato. Altri, lunghissimi, assoli, fino al ritorno della voce e a un finto finale intorno ai 7:30, poi però si ricomincia più furiosi di prima per altri due minuti e più di caos sonico, con due voci a rubarsi la scena e la chiusura in dissolvenza.
Il Valore Delle Cose parte come i Metallica del Black Album, con la bella aggiunta dell’armonica. La voce è pacata, sembra immersa nella malinconia di fondo che pervade il brano. Le lyrics sono le mie preferite: «Ci deve esser qualcosa nell’aria che ci stordisce e ci rende felici di essere persone comuni». Poi comincia un grunge-rock triste con un assolo di scuola John Frusciante, e di nuovo lo strumentale, con in evidenza il ranocchio («Un piccolo strumento a percussione in legno, cavo, che ha appunto la forma dell’animale da cui prende il nome». Mi sono di nuovo rifatto alla spiegazione di Marco). «Il valore delle cose si nasconde dietro parole», canta con la voce rotta Stefano. Ancora assoli (il fatto che io, a parole, sia costretto a ripetere sempre quel termine specifico, è inversamente proporzionale alla varietà e bellezza dei vari stacchi presenti).
Incomprensione è il “fulmine” dell’album: 2:46 di grunge sporcato da distorsioni soniche, con voce in stereo, che urla prima di qua, poi di là, poi canta tutto veloce e concatenato, di nuovo assolo (più breve, certo) sullo strumentale, poi si torna sui 4/4 e alla fine urlo e chiusura ultrasbrigativi.
Casa Di Periferia, oltre a essere la degna conclusione di un album come questo (odissea infinita di quasi undici minuti), è poi il pezzo più genuinamente metal, con un riff pesante e assoli puramente stilistici, molto lunghi e fatti di note tendenzialmente molto acute, tanto che il suono si affila così tanto da diventare a tratti disturbante: ma del resto è il tono di questa ultima canzone a essere ripetitivo, ossessivo. E ancora assolo anche di batteria, accompagnati dalle distorsioni devastanti delle chitarre, verso i cinque minuti, fase in cui la canzone sembra già poter finire in qualunque momento: il caos sonoro si spande, si affievolisce e riprende come in L.A. Blues (The Stooges), e la sensazione generale è che le chitarre, più che essere suonate, stiano venendo sfregate contro gli amplificatori, mentre la batteria va ormai per conto suo. E, dopo tutto, la canzone (e con lei l’album) si chiude, morendo sulla chitarra che stride sull’ultima nota, ma ci si rende conto solo nel momento in cui si rimane da soli, in silenzio, che quello che resta non è proprio silenzio, è piuttosto un rumore di fondo.
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