Rumori Di Fondo - L’Estremo Walzer
La discografia dei Rumori Di Fondo comincia a farsi consistente: dopo l’esordio omonimo di ormai quasi un anno fa e il live uscito a settembre scorso, eccoli sfornare un nuovo ep che, già a partire dall’ordine e dalla durata delle tracce, mostra che i quattro non lasciano nulla al caso: un’introduzione e una conclusione strumentali di nemmeno due minuti, che incorniciano tre pezzi (due già presenti nel disco dal vivo, uno totalmente inedito) di circa sei minuti l’uno.
Intro e, simmetricamente, Outro, sono la naturale evoluzione della linea sonora distorta e discordante a cui il gruppo sta ancora aggiungendo nuovi tasselli: se però nei precedenti dischi la ricerca del frastuono più atroce (come avrebbe detto Lester Bangs) era confinata all’interno dei brani, ora assume invece una propria autonomia, tanto da meritarsi opening e closing track. La registrazione di queste due tracce, peraltro, non è stata missata in studio come le tre canzoni centrali vere e proprie, bensì è un home recording, che ancora una volta si dimostra il mezzo più efficace di trasmissione di rumore. In apertura Stefano e Marco ci danno dentro con le chitarre, le cui distorsioni e picchi mettono a dura prova le casse del mio stereo. In chiusura invece il suono si fa più soffuso e avvolgente, ed emerge maggiormente la melodia. Il giusto modo per entrare e uscire dall’atmosfera del disco in modo non troppo traumatico.
Come Ingoiare Vetro è il manuale di torture dei Rumori Di Fondo. Pesantissima e ossessiva sulle stesse due note, come i frammenti di vetro che il protagonista è costretto a mandare giù uno dopo l’altro, è ulteriormente appesantita dalla voce-delirio di Stefano che canta come se non ci fosse un domani. Assolo lungo (e bello), come da tradizione consolidata, e chiusura di nuovo urlatissima.
L’Estremo Walzer parte decisamente più calma, è sì grunge negli accordi, ma filtrata dall’ormai riconoscibile aura rumoriana, talmente densa che si potrebbe tagliare con un coltello: su una base chitarristica from Seattle si innestano delle deviazioni soniche che, nell’assolo, subiscono anche l’influenza hard britannica. E quel «Qualche volta mi disprezzo» ripetuto nel finale ricorda subito «I hate myself and I want to die» di cobainiana memoria.
Dentro Al Morbo Del Caos attacca, posso dirlo, post rock. Arpeggio armonico a supporto di una voce bassa, quasi sussurrata (rarissimo!). A questa trama sonora si alterna un’altra canzone, del tutto diversa, muro sonoro molto intenso, con assoli metallici e stridenti. Sul finire rallenta e l’arpeggio è tagliato. Ma si sarebbe potuto protrarre la canzone ad libitum.
In questo ep c’è un filo conduttore, un topos, al di là dei già ampiamente visitati temi del dolore, della disperazione, dell’angoscia. E questo tema trasversale è quello della contrapposizione dentro/fuori. A cominciare da una vera e propria contrapposizione fisica: la fotografia di copertina mostra un angusto spazio chiuso e buio su cui si apre una finestra di luce bianchissima, abbagliante. Nei testi delle canzoni, questa opposizione assume connotati gradualmente più rarefatti: «I pezzettini di vetro / Spappolano le mie membra» (una lastra in musica, praticamente. Immaginare la scena non è difficile) e ci troviamo ancora in una dimensione materiale; poi, «Lo sconforto dei ricordi ci svuota l’anima» […] «Ma son certo che corrode, lentamente dentro me» (e anche «Il sapore del mare» […] «Brucia la lingua»), e stiamo passando a un piano a metà strada; infine, «La nostra malattia / Si avvale di buone scuse / Per deriderci, è virale», dove è il morbo del caos che, come fosse un microbo, si insinua nel corpo attraverso l’aria che respiriamo.
Cosa aggiungere? La registrazione è finalmente soddisfacente, la grafica è come sempre ben curata (etichetta adesiva sul cd pregiatissima!), la presenza dei testi è ovviamente gradita. Altri brani, per ora inediti, sono in attesa di pubblicazione. Intanto, godiamoci questi.
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