Le Muffe - Down, Down, Down
Le Muffe si definiscono «un complesso musicale per giovani che vi prenderà tutti quanti a calci nel culo», il che è già bastevole a inquadrarne l’attitudine generale: da un lato lo sguardo ai Sixties della ribellione capellona, dall’altro l’attrazione fatale per il punk e l’aggressività sonora a bassa fedeltà. Se l’espressione «Da [nome di luogo geografico] con furore» non fosse inflazionatissima, stavolta sarebbe proprio il caso di sfoderarla, visto che il trio bergamasco non le manda a dire né dal punto di vista dei decibel né sotto il profilo dei testi. Intanto: il sound. Zero chitarre. Ol Pjpa, che firma tutte le canzoni e canta, suona solo l’organetto: un fichissimo Vox Continental che si imprime nei padiglioni auricolari peggio del cugino inacidito di un Hammond. Spesso la voce e lo strumento vanno all’unisono e, talvolta, il basso di Sick Boy segue la medesima linea melodica. Intanto, lì dietro, Bert si sbraccia alla batteria. La sezione ritmica è impegnata ai cori. Fine. Insomma, tutto è ridotto all’osso, all’essenziale, anzi, al primitivo, altro aggettivo che torna di tanto in tanto quando ci si imbatte in gruppi del genere.
Incazzata dal primo all’ultimo secondo della mezz’ora di Down, Down, Down e quasi bramosa di dimostrare di poter arrivare in fondo con la stessa rabbia del principio, la voce di Ol Pjpa ci traghetta attraverso una decina di brani che, seppur in apparenza slegati tra loro (non sia mai che allo sgangherato garage punk vengano associati termini come concept!), disegnano a mio giudizio un quadro coerente che delinea una certa desolazione, la consapevolezza di un grigiore circostante, come già in prima battuta la copertina dell’album suggerisce. Non a caso, Giungla D’Asfalto è il titolo del brano d’apertura: la canzone è presente anche nella recente raccolta Bomb Your Brain – Best Of Bastard Compilation Vol. 1, pubblicata dalla francese Pigmé Records, che – assieme ad Area Pirata, Tumulto, T.AC. Records e Party Tonite – compartecipa alla distribuzione di Down, Down, Down (e sostiene un mucchio di altre band dalle sonorità affini). «Giungla d’asfalto e muro di piombo / Cielo del ghetto e tu moribondo», canta Ol Pjpa: eppure non si avvertono mai rassegnazione né arrendevolezza, bensì voglia di reagire, di rovesciare le carte in tavola. Bogside è un affresco, realistico nella sua durezza, della vita nel villaggio nordirlandese dell’area di Derry: «Poi esco a far due passi sulle mura / L’aria è fredda e densa qui nel nord / C’è smog e povertà sulla collina / Le colpe della guerra nel Bogside». L’anglofona Andy Smith descrive la figura di un mascalzone («scoundrel». Che parola dal suono meraviglioso!), un bevitore, un perdigiorno, uno che… si vorrebbe per Presidente. Direi che la mia preferita è Ragazzo Beat, che si colloca alla perfezione nella grande sottocategoria dei brani sull’emarginato, sul freak, sul tizio rock’n’roll che noialtri ci sentiamo o perlomeno speriamo di essere, sempre un po’ di lato alla società conformista, mai troppo integrato, capace di star dentro alla propria quotidianità in modo critico: «Non c’è lavoro / Non c’è la casa / Non c’è famiglia / Nessuna chiesa per te». La canzone non sfigurerebbe in un disco delle band italiane anni Ottanta che riprendevano i temi dei Sessanta: per intenderci, Gli Avvoltoi e compagnia cantante. Però sempre con il pedale schiacciato a manetta, ché noi qui siamo dei perdenti di provincia, mica delle Rockstar, come il pezzo successivo ci ricorda in modo sì spietato, ma anche orgoglioso di un underground che, per quante mazzate possa prendere, non muore mai.
Il lato B del vinile attacca con SUV, a un tempo brutale presa per il culo dell’italianità più becera e condanna senza appello del grottesco mezzo di locomozione, grottesco se non altro in piccole città pianeggianti come certe nostre del settentrione. Non si limita all’italiano e all’inglese, Ol Pjpa, ma si lancia – con la sua voce cavernosa e a tratti intimidatoria – in un francese semplice ed efficace, dritto per dritto, nell’impossibile da fraintendere Monde De Merde, unico episodio del disco a superare i quattro minuti di durata, in virtù di una ritmica un pelo meno forsennata rispetto alle altre tracce. Pare è una preoccupata denuncia della noia e dell’apatia che possono farci scivolare in dipendenze anestetizzanti: ma ripeto, Le Muffe propongono sempre una chiamata all’azione, al rimboccarsi le maniche, al fare da sé, senza aspettare aiuti dall’alto, aiuti che non arriverebbero e non arriveranno. Il titolo del terzo album della band proviene da un verso di Step By Step, altra canzone in inglese, una discesa sempre più giù, in un gorgo mentale che ha dell’infernale. E infine, come a riassumere tutto ciò che abbiamo ascoltato fino a quel momento, la conclusiva Tento Tanto proclama: «Tento il canto sordo della gente perduta / Tento il canto rauco di chi sbraita irrequieto / Sento le mie grida e chi sta sottoterra / Tento tanto e stoico perderò la mia guerra». Be’, se sarà persa, sarà stato in ogni caso importante provarci.
Le Muffe non sono una di quelle band di cui sentiremo mai parlare come di una sensation. Il gruppo, attivo da oltre un decennio, ci consegna un album del tutto privo di qualsivoglia compromesso: aspro, immediato, tagliato con l’accetta e, in definitiva, inciso esattamente come si voleva inciderlo. Se non è un merito questo! Insomma, se vi piacciono il beat italiano, oppure The Mummies e pazzoidi lo-fi simili, se apprezzate le uscite di etichette come la Sympathy For The Record Industry o la mai abbastanza celebrata In The Red, allora date una chance a Le Muffe. E, soprattutto, andate a vedere i tre in concerto; e – questo lo garantisco – non ve ne pentirete.
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