Le conseguenze dell’amore
Io sono decisamente prevenuto nei confronti dei film che contengono nel titolo la fatidica, abusata, tuttoenientistica parola “amore”. E, a ben vedere, scorrendo rapidamente la lista delle ultime pellicole italiane appartenenti a questa sottocategoria cinematografica, non è che il mio pregiudizio sia poi così infondato, anzi. Recentemente, per esempio, sono usciti lo scadente L’amore ritrovato di Carlo Mazzacurati e il fastidioso Nel mio amore di Susanna Tamaro. Esce poi, in questo periodo, Manuale d’amore di Giovanni Veronesi (posso immaginare). In questi tre titoli, il suono di “amore” che arriva all’orecchio è caldo, mellifluo e, nel bene e nel male, comunque passionale.
E poi c’è Le conseguenze dell’amore. E cambia tutto.
Il contesto in cui si inserisce “amore” è funesto: nella stragrande maggioranza dei casi, usiamo “conseguenze” per riferirci a una situazione negativa nel futuro («Ne pagherai le conseguenze» o «È successo ciò, e di conseguenza…» e in genere il resto della frase non è rose e fiori). La grafica del titolo è essenziale, asciutta; il carattere tipografico utilizzato sarebbe perfetto per il logo di una azienda informatica del tipo “Futuretech Inc.”, non certo per scrivere “amore”.
Titta Di Girolamo (l’unica cosa frivola posseduta dal protagonista è, per sua stessa ammissione, il nome) ha quasi cinquant’anni, è divorziato da anni, i tre figli li chiama spesso ma loro al telefono ci vanno controvoglia (se ci vanno), sta da anni in un hotel in Svizzera. Ha un segreto inconfessabile (tutti ne abbiamo uno): da ventiquattro anni, ogni mercoledì mattina, alle dieci precise, fa uso di eroina. Oddio, non si può dire che sia un tossicodipendente; ma nemmeno si può definirlo un uomo estraneo al problema della droga. Si occupa di trasferire grandi quantità di denaro, contenute in una valigia che gli viene regolarmente consegnata alla porta della sua stanza da una sfiorita femme fatale, a una vicina banca, dove il denaro sarà contato a mano da quattro impiegati (alla domanda sul perché il denaro non possa essere contato dalle macchine, Titta risponde che bisogna aver fiducia negli uomini, e che il giorno in cui questa verrà meno sarà un giorno sbagliato), alla presenza di Titta stesso e del responsabile della banca, e successivamente messo al sicuro nel caveau.
Di, o per, chi sono questi soldi? Titta è un criminale? Domande che a inizio film non hanno una risposta chiara. Be’, si capisce che per avere dieci milioni di dollari in valigia tutte le volte, l’attività svolta da Di Girolamo non debba essere troppo legale. Ma non è questo il punto.
Il punto è che le cose vanno sempre così. Da anni. Precise. Efficienti. Rarissimi i casi di ostacoli o complicazioni. Ha pure una pistola, Titta, ma solamente per sicurezza. E sta lì, in albergo, non parla quasi con nessuno, fuma seicentotrenta miliardi di sigarette, pensa. Ma, sempre lui come voce narrante ce lo confessa, non ha molta immaginazione, che è la cosa peggiore per un uomo che deve passare molto tempo da solo.
Lo viene a trovare il fratellastro Valerio, di vent’anni più giovane, un trentenne coi capelli cotonati che nemmeno può sembrare un conoscente di Titta. Valerio sta per partire per i Caraibi, per andare a fare l’istruttore di surf. Mai due familiari furono più agli antipodi, in tutti i sensi.
Da piacione quale crede di essere, nell’unica giornata di visita, tra pomeriggio e sera Valerio trova anche il tempo di provarci con la barista dell’albergo, la bella Sofia, ottenendo un sonoro due di picche. Sofia lavora nell’hotel da un paio d’anni; ogni volta che stacca, saluta e se ne va, ma all’ennesimo «Arrivederci» non ricambiato da Di Girolamo, si infervora e gli urla: «Si è accorto che esisto?». E Titta, che se n’era già accorto eccome, anche spronato da un consiglio fraterno durante la notte, il mattino dopo si siede al bancone del bar (anziché al suo solito tavolo imboscato nell’angolo), affermando di stare facendo la cosa più pericolosa della sua vita. Anche perché, sul suo taccuino, Titta ha appuntato queste parole: «Progetti per il futuro: non sottovalutare le conseguenze dell’amore».
Sullo sfondo, una sottotrama dedicata a un’anziana coppia di coniugi, lei rassegnata all’attesa della morte, lui desideroso di concludere la propria vita in modo «spettacolare» come l’ha vissuta, lei attaccata affettivamente ai pochi oggetti di famiglia rimasti, dopo che lui ha perso praticamente tutto al gioco d’azzardo. Anche le dinamiche relazionali con costoro si riveleranno importanti per Titta e per l’economia del film.
Con la trama mi sono spinto anche troppo in là…
Paolo Sorrentino, trentaquattrenne regista napoletano, è solo al suo secondo lungometraggio, ma sembra al ventesimo. Le conseguenze dell’amore è un film di valore cinematografico talmente alto che probabilmente sarebbe stato bello anche se avesse avuto la trama di quel cesso di Ovunque sei di Michele Placido. Invece, ha pure una trama avvincente e ben costruita. Un fattore unito all’altro, e il risultato è un film favoloso.
Lo stile di Sorrentino è duplice: da un lato classico, misurato, asettico; dall’altro schizofrenico, violento, disturbato. In certi momenti sembra quasi manierista, in certi altri pulp (Sorrentino-Tarantino…). Da un lato impiega minuti e minuti sui primi piani di Titta assorto e sulle accensioni delle sigarette, dall’altro descrive in tre stacchi di mezzo secondo il trasferimento del denaro alla banca. All’inizio del film utilizza un lungo, bellissimo piano-sequenza a camera fissa, la durata del quale coincide con quella dei titoli di testa, per mostrarci l’impiegato, con la valigetta zeppa di dollari, che, fermo sul tapis roulant in movimento, aspetta senza fretta, e senza aggiungere il proprio moto, che sia la tecnologia a portarlo là dove deve arrivare. Nella prima delle due sequenze dedicate alle “botte” di eroina, la cinepresa si agita nervosamente mentre le luci si fanno quasi stroboscopiche; nella seconda, al contrario, Sorrentino opta per una lunga e lenta panoramica verticale che ruota attorno alla testa del protagonista, partendo dalla nuca per arrivare all’inquadratura frontale ma rovesciata (“a testa in giù”, per chiarire). Soluzioni stilistiche sempre azzeccate, mai banali, un’ossatura da thriller ma con elementi che arricchiscono notevolmente l’insieme, un finale bellissimo, frammentato e non convenzionale, fanno di Le conseguenze dell’amore un film davvero meritevole di essere visto (e rivisto, per cercare di comprendere meglio alcuni aspetti della trama). Assolutamente particolare, infine, la scelta delle musiche: si passa dalla drum’n’bass a Ornella Vanoni senza soluzione di continuità.
Gli attori: Toni Servillo (che principalmente è un attore teatrale) è stratosferico nella parte di Titta; i raccomandatissimi Olivia Magnani e Adriano Giannini (rispettivamente nelle parti di Sofia e Valerio) sono comunque bravi. La fotografia è firmata dal bravissimo (e iperattivo, dato che cura la fotografia quasi della metà dei film che escono) Luca Bigazzi.
A ulteriore conferma di quanto il titolo sia perfetto, durante i titoli di coda (belli quasi quanto quelli di testa: cominciano in silenzio, la musica sale piano piano) si riflette sul fatto che anche in questo film non è tanto l’amore a uscirne con una bella immagine: piuttosto, guarda un po’, l’amicizia.
Sul vostro taccuino, potete appuntare queste parole: «Progetti per il futuro: vedere Le conseguenze dell’amore».
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