Koyaanisqatsi
L’improbabile titolo è un’espressione della lingua indiana Hopi che significa più o meno “forma di vita impazzita e senza equilibrio”, tutto quanto, secondo il regista indipendente Godfrey Reggio, riferito agli esseri umani.
Koyaanisqatsi si discosta da un normale film di fiction perché non ha né attori, né battute; e non c’è un evolversi di eventi funzionali alla trama, perché la trama di questo film fa unicamente riferimento alla sopraccitata leggenda indiana… A prima vista potrebbe assomigliare a un documentario, ma non c’è nessun commento di sottofondo a supporto delle immagini… C’è solo una musica composta perlopiù da corni e da una voce cavernosa che ripete all’infinito l’idioma indiano che fa da titolo all’opera… Tutto questo ha la funzione di dare un senso di meraviglioso, strabiliante e maestoso alle immagini che sottolinea… Sì, perché le immagini sono il vero punto di forza di questo film.
Reggio comincia mostrando la spettacolarità dei quattro elementi… Aria, fuoco, terra, acqua, inquadrati dai punti di vista più diversi e impensabili, con il grandangolo che porta lo spettatore dentro la bellezza senza tempo delle grandi distese del Nordamerica. Perlopiù le riprese sono state fatte sul Grand Canyon e nella Monument Valley. Particolarmente usata è la tecnica della variazione della cadenza di presa (velocizzazione o rallentamento della pellicola oltre i 24 fotogrammi al secondo standard) per cui, su una veduta delle Montagne Rocciose, abbiamo le nuvole sullo sfondo che si muovono velocissime.
Dopo aver visto questi scenari mozzafiato li vediamo a mano a mano sempre più contaminati, prima da una centrale elettrica, poi da decine e decine di tralicci, poi da una gigantesca ruspa, poi dall’esplosione di una bomba. L’intento del regista è chiaramente quello di mostrare quanto l’uomo modifichi e sfrutti a proprio piacimento l’ambiente in cui si trova… Ancora più chiaro è quando la macchina da presa si sposta sulle grandi metropoli…
L’uomo è ripreso da lontano, con il teleobiettivo, come l’animale di un documentario, immerso nel suo “habitat naturale” fatto di autostrade a quattro corsie e di automobili in coda su di esse, stazioni della metropolitana, marciapiedi e quartieri degradati.
L’uso esasperato del teleobiettivo, che comprime la prospettiva e schiaccia gli sfondi, fa sembrare le autostrade giganteschi nastri trasportatori di automobili, mentre le velocizzazioni trasformano il traffico notturno della metropoli in scie illuminate e le persone che affollano la Borsa insetti che brulicano nel loro alveare.
Reggio insiste con il teleobiettivo, i ralenti e le velocizzazioni, tutto quanto è montato seguendo la musica del compositore minimalista Philip Glass e l’effetto è efficace: Il senso di realtà rispetto a quello che vediamo pian piano ci abbandona… È come essere su un’astronave aliena e vedere per la prima volta gli esseri umani e il posto in cui vivono… La meraviglia e lo stupore ci prendono di fronte a quello che è riuscito a costruire, dai palazzi che sembrano immensi megaliti, alle catene di montaggio per produrre gli oggetti di cui si serve tutti i giorni, agli uomini che vagano in mezzo al cemento, animali unici nel loro genere e strani nei loro atteggiamenti abituali… La percezione delle cose così come siamo abituati a vederle cambia e le immagini del film rendono alla perfezione quello che gli indiani intendono per Koyaanisqatsi.
Per realizzarlo ci sono voluti sette anni ed è stato coprodotto da Francis Ford Coppola, il film è in sostanza una riflessione molto sottile sul progresso con una vena chiaramente “ecologista”. Una delle immagini di apertura è la partenza di un razzo da una rampa di lancio, l’ultima immagine è sempre quella di un razzo, ma che esplode in decine di pezzi infuocati, le immagini sono poi accostate alle prime incisioni degli uomini primitivi agli albori della storia… Ricorda un po’ 2001: odissea nello spazio… O è forse il messaggio che la strada che ha intrapreso l’umanità è sbagliata?
Buono l’intento del regista, ma non tanto chiaro ed evidente, lo spettatore rischia di non raggiungerlo e di fermarsi alla sola contemplazione della spettacolarità delle immagini del film.
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