Kill Bill Volume 2
Kill Bill Volume 2 è un capolavoro.
Seconda parte di un unico film oppure oggetto distinto da Kill Bill Volume 1? Entrambe le cose, naturalmente.
Se è vero, infatti, che la narrazione è per forza legata a ciò che si è visto nella prima parte, è vero anche che il film è del tutto comprensibile anche senza aver visto il precedente (che poi, parlando da cinefilo, un’operazione di questo tipo sia criminosa, è un altro discorso). E se è vero che, nel progetto originale, ognuno dei nove capitoli, più il capitolo finale, doveva essere un omaggio a un determinato genere di b-movie, è anche vero che è innegabile un cambio di ritmo, uno iato tra i due film. Quanti sono crepati in Kill Bill Volume 1? Ottanta? Cento? Di più? Beh, in questo film ne muoiono tre. Non è un’iperbole per dire che ne muoiono pochi. Sono proprio uno, due, tre. Se, insomma, Kill Bill Volume 1 è un bagno di sangue simile a un rock’n’roll, Kill Bill Volume 2 è, per così dire, un tango de la muerte. Più calmo, più liscio, più lento se vogliamo, ma non per questo meno letale.
Detto ciò, sì, forse avrei preferito un film unico, tuttavia mi (ci) sarei (saremmo) perso (persi) qualcosa di fantastico già nei primissimi minuti di film. Al posto dello stacchetto Our feature presentation, a dire a noi spettatori «Guardate che state per vedere un film, e noi personaggi ne siamo consapevoli» pensa Uma “La Sposa” “Black Mamba” Thurman: primo piano, sguardo diretto verso la macchina da presa e narrazione in prima persona che fa riferimento, nel discorso introduttivo, anche alla (giustificata) «ruggente furia vendicatrice» della Sposa. «Come nella pubblicità del film». Solo che non lo dico io: lo dice Uma, guardandoci con gli occhioni azzurrissimi anche in bianco e nero. Bene, uno spettatore un po’ (tanto) appassionato come il sottoscritto, impazzisce già per una cosa del genere. E mancano due ore e tredici alla fine del film.
Il metacinema tarantiniano comincia/finisce qui (il momento del riassunto si colloca cronologicamente, in realtà, quasi alla fine della fabula, e cioè nel momento in cui B(suono di un clacson per mascherare il vero nome di Black Mamba) sta viaggiando in macchina per andare a uccidere Bill. Lungo tutto il perimetro di questa circonferenza, mille e una citazioni, omaggi, sia auto sia eteroreferenziali, condensati in un’opera del tutto “a sé”, proprio nel suo essere terribile, continuo, allucinatorio dentro/fuori in questo o quell’altro genere, in questa o quella tecnica di ripresa, in alta o bassa definizione, in primo piano o in campo lungo, in dettaglio (meglio se di s-calzatura) o in piano americano, in funk/kung fu (stesse lettere che girano) o in epic western dopo un colpo di doppietta in piene tette.
E un’altra citazione (ma, a costo di ripetermi, ribadisco che per citare tutto il citabile di ciò che cita o è citato, ci vorrebbe troppo spazio) è nei titoli di coda, nella parte “R.I.P.”, con un saluto a Sergio Leone, Sergio Corbucci, Lucio Fulci, Charles Bronson e altri senza i quali il cinema di Tarantino non sarebbe cinema “à la Tarantino” per come lo intendiamo noi ora, e tante, tantissime altre cose. Tarantino escluso, esisterà qualcuno che le ha “beccate” tutte?
Ma veniamo al corpo del film, posto che finora si è parlato della sua anima: la maestria con cui Quentin padroneggia le tecniche cinematografiche è indubbia. La sensazione è davvero quella di aver visto un film perfetto, un film che non trova snodo di senso solo nel suo insistito rimando a qualcosa che è fuori dal film stesso, ma un’opera che lascia sbalorditi per la sua precisione stilistica, il dosaggio dei tempi e degli spazi, l’uso magnifico (e immaginifico) dei dialoghi, il fatto di mostrare subito ciò che ci si potrebbe aspettare non verrà mostrato (Bill) o invece di recedere con una bellissima carrellata all’indietro verso l’alto, fuori dalla chiesetta di El Paso, per risparmiarci ciò che già sappiamo.
Se, pistola alla tempia, si fosse dovuto definire Kill Bill Volume 1 come b-genre, si sarebbe detto: «Kung fu movie». In Kill Bill Volume 2, invece, prevale il western, ma anche l’altra tendenza dell’estremo Oriente: il film di samurai. Diverso dal kung fu per drammaticità e ritmo, è un sottogenere che potrebbe trovare un equivalente occidentale nel cosiddetto filone “cappa e spada”. Ovviamente queste distinzioni non sono per nulla nette, e se proprio nella sezione a cartoni animati in stile anime di Kill Bill Volume 1 si trovava, a mio avviso, il massimo tasso di western nel film, qui il geniale combattimento tra La Sposa e il maestro Pai Mei (interpretato da Gordon Liu, lo stesso che in Kill Bill Volume 1 aveva il ruolo di Johnny Mo, il capo degli 88 folli, là ginöch impeccabile, qui canuto con sopracciglia da antologia e barba lunghissima perennemente lisciata dalla potente mano) è il momento del contrasto immagini/musica più marcato (scontro tra le tecniche Tigre-Gru e Artiglio dell’Aquila con sottofondo funk anni ’70) e di kungfuismo prepotente. Grandioso, nel capitolo «I crudeli insegnamenti di Pai Mei», l’uso della bassa definizione: effetto di ciò è lo “sgranato” ultravintage. I velocissimi zoom da figura intera a primissimo piano (o anche il percorso inverso) sono anch’essi “rubati” a quel tipo di film.
La trama, stringata. Budd sembra un rovinato dalla vita, caduto in disgrazia, ridotto a vivere in una roulotte nel deserto. E, in Kill Bill Volume 2, questa sorta di rifiuto umano (per Michael Madsen, nella parte, è come andare a nozze) è il primo obiettivo di Black Mamba. Ma l’apparenza inganna, il tizio è ancora un figo, e al primo tentativo di Uma di fargli la festa, è lui che la fa a lei: la ferisce sparandole del sale grosso, la addormenta e la povera si risveglia legata, ferita e in balia di Budd (che si scopre essere fratello di Bill) e di un certo Ernie, determinati a sbarazzarsi di lei mediante il cosiddetto «funerale alla texana».
Sepolta viva!
Simmetricamente al flashback che scatta nella scomoda situazione «Avanti, muovi l’alluce» di Kill Bill Volume 1, qui la nostra eroina si ritrova nella bara di Paula Schultz (e qui scattano tutti i trip delle citazioni da Il buono, il brutto, il cattivo e via dicendo) con una torcia, un rasoio (nello stivale) e un pugno da paura. Con queste armi, La Sposa riesce a uscire da sottoterra (ed ecco Romero, gli zombie ecc.) e per spiegare la forza del pugno, che le permette di infrangere il legno della cassa, scatta il flashback degli addestramenti dal maestro Pai Mei. Intanto, Elle Driver (nome in codice: Serpente Montano della California, interpretato dalla sempre affascinante Daryl Hannah – cognome palindromo, e questo mi basta) frega Budd, lo avvelena con un morso di black mamba (il serpente), gli prende la spada che Budd aveva a sua volta sottratto alla Sposa e sta per farla franca quando arriva Uma, scalza, sporca e incazzata. Duello. Elle Driver finisce cieca, ma viva. Poi, Bill, e uno sconcertante incontro. Ho già detto troppo, per il resto si consiglia la visione (o anche revisione, dato che ogni volta che si rivede un film così ci si accorge inevitabilmente di qualcosa sfuggito precedentemente).
La musica: tre grandi pezzi di Ennio Morricone, dato che comunque aumentano i momenti di puro western (lo sputo ricambiato Black Mamba-Budd); la colonna sonora originale composta da The RZA dei Wu Tang Clan e da Robert Rodriguez (amico di Quentin nonché regista di Dal tramonto all’alba), per finire con Goodnight Moon di Shivaree.
I momenti da antologia sono tutti. Ma alcuni più di tutti gli altri: la fine che fa l’altro occhio di Elle Driver; il discorso di Bill sulla filosofia che sta dietro ai supereroi dei fumetti; il flashback del giorno in cui Black Mamba scopre di essere incinta, con uno scontro tra donne letali interrotto dalla consultazione di un test di gravidanza.
E ci sarebbero molte altre cose da dire: il sentimento di amore-odio della Sposa nei confronti di Bill, e lì è bravissima Uma Thurman a rendere credibile, con la sua mimica e i gesti, il fatto che Black Mamba, nonostante tutto, sia ancora affascinata da quel tizio che le ha piantato una pallottola in testa; e poi, la politica dell’autore fetish, con l’elenco delle donne scalze che popolano i film di Tarantino e con l’uso di attori ormai definibili feticci (anche Samuel L. Jackson fa una comparsata, nei panni di Rufus, l’organista della chiesa di El Paso) ecc.
Chiudo con questa battuta surreale. Bill e Black Mamba sono finalmente faccia a faccia, e lui (David Carradine, star anni ’70 della serie televisiva Kung Fu) sta cercando di giustificare il massacro di El Paso.
Bill: «Ho reagito male».
Black Mamba: «Hai reagito male?».
Kill Bill Volume 2 è un capolavoro.
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