Jenny’s Joke - Ninth Scene
La tonalità di rosa non è poi così differente, rispetto al precedente disco. Solo che questo rosa non sfuma, è perfettamente uniforme.
Ninth Scene è un concept album musicale e grafico. Ancora prima di aver ascoltato il disco, si può sfogliare il booklet e seguire una storia a vignette, a scene, appunto. E la prima cosa interessante è proprio questa: i testi delle canzoni, in realtà, non ci sono. Ci sono degli estratti dei testi, ma non portano il titolo dei brani a cui si riferiscono. Sono invece accreditati semplicemente come First Scene […] Tenth Scene.
Prima scena, anzi no, prima canzone: The Trip Song. Sembra che di sottofondo ci sia un vento sibilante. Anzi… C’è veramente. Inizio molto lento, molto lungo, solo qualche arpeggio e qualche accordo, molto discreti. Voce toccante. Decollo normale a minuti due abbondanti. Poi è post rock come si deve, generoso con le distorsioni e con l’assolo sibilante. Finale acustico, si sente di nuovo il vento.
La seconda è A Pig In The Rain. Un maiale nella pioggia. Un maiale rosa come la copertina. E una canzone disperata, sul concetto di ricordo. Sulla vanità del ricordo, sotto certi aspetti. Piuttosto tirata musicalmente, rimane in testa la batteria rumoreggiante.
Talking About Her Ghost è semplicemente una bellissima ballata costruita attorno al pianoforte, enfatizzata dal violino, molto malinconica, mi ha ricordato Perfect Day di Lou Reed per la sensazione di sublime dolore che suggerisce.
Allucinata arriva Girls With Black Hair, e non c’è bisogno di cogliere il testo per percepire il sentimento di impotenza che pervade l’atmosfera del brano. Nella parte centrale, un assolo di violino che diventa una vertiginosa scala prima di restituire la scena alle chitarre distorte e al finale: «Bye bye girls».
A questo punto del primo ascolto ho avuto quella piacevole sensazione che si prova nel “ritrovare” una canzone. Assistendo a qualche concerto dei Jenny’s Joke, ogni volta che la sentivo mi dicevo ’Co Giuda, questa è fantastica. Ecco, ora ha anche un nome: si chiama The Gift e onestamente mi sembra avere un mood e un refrain assolutamente eccezionali. Sicuramente il mio pezzo preferito del disco. Riascoltandola, ne trovo la vera magia nei passaggi degli accordi nel ritornello. Insomma, è splendida. Finale dilatato, coinvolgente, tutti gli strumenti sembrano in slide, spicca il violino.
L’inizio di The First Song Of The Year contrasta molto con quanto l’orecchio si era abituato ad ascoltare nei minuti precedenti. Riff secco e molto “elettrico” di chitarra distorta, su cui si innesta il cantato, anch’esso distorto, forse col megafono. Assolo prima noise, poi di nuovo sibilante e rarefatto. Corde di violino violentate prima di un secondo assolo, acidissimo, che si interrompe all’improvviso.
Anche Sea Horse mi è rimasta impressa: amo quando si sente il suono delle dita che scivolano sui tasti dell’acustica. Si può registrare un suono più onesto di così? Voce calda, soprattutto all’inizio, poi anche raddoppiata, finale in dissolvenza con ancora qualche rumore in sottofondo.
L’ottavo brano (siamo quasi alla title track) s’intitola Red ed è quasi la prosecuzione necessaria del pezzo che è venuto prima. Molto giocato sui dialoghi tra gli strumenti, nei momenti in cui si intromette la voce l’amalgama è completa.
Eccoci alla nona canzone, a Ninth Scene.
Un colpo di forbici. Un secondo colpo di forbici. Un terzo colpo di forbici.
Il contatore delle tracce sullo stereo già dice “10”.
L’attesa nona scena, la chiave di volta del concept, può essere stata questa?
Il decimo e ultimo brano, Revolver, è il più lungo (oltre sette minuti), e già a partire dal titolo e dalla vignetta corrispondente sul booklet, non lascia presagire esattamente un happy ending per la nostra storia e per gli omini stilizzati che ne sono protagonisti. Il pezzo (che in qualche cosa ricorda i Radiohead di Ok Computer) comincia piano, la musica e la voce vanno di pari passo, ma quando la leva della distorsione viene impiegata a fondo anche la voce cresce drammaticamente e il testo assume un climax ascendente di violenza. «Hear me out and load your gun / How do you feel? Are you ready now?». Poi, a colpo sparato (da chi? A chi?), solo la voce: «How do you feel? Are you satisfied?». Finale né più né meno che da brividi.
Ecco, adesso lo stereo è muto. Ho ascoltato un disco molto originale, narrativamente coinvolgente come un bel film o un bel libro, suonato benissimo, cantato altrettanto bene, con molta interpretazione, con una produzione puntuale (ogni piccola sfumatura sonora trova il giusto spazio nei timpani dell’ascoltatore), con una grafica minimale che in genere non amo ma che in questo caso, come si suol dire, ci sta a pennello.
Estraggo il disco dal lettore e lo ripongo nella custodia. Rimetto a posto il libretto nelle guide di plastica. Riguardo la copertina, ma ancora non colgo la soluzione. Capirò solo dopo un altro ascolto del disco e altri tre quarti d’ora con il booklet fra le dita. Eppure il tassello mancante era lì dall’inizio, sotto i miei e i vostri occhi. La vignetta della nona scena è la copertina stessa. Guardatela con attenzione.
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