Janis Joplin - I Got Dem Ol’ Kozmic Blues Again Mama!
Chi è cresciuto con il rock, il metal o con la musica alternativa in generale si deve essere chiesto, a un certo punto della sua vita: «Ma da dove viene tutto questo?». Se dovessimo tentare di ricostruire un albero genealogico della musica rock nel senso più ampio possibile, di sicuro c’è un momento in cui una storia piuttosto lineare (quantomeno se guardata con gli occhi degli anni Duemila) ha un punto di svolta decisivo: questo punto è il periodo che intercorre tra la Summer of Love del 1967 e la Fiera della Musica e delle Arti dell’agosto 1969 che qualcuno di voi conoscerà come Woodstock; quattro giorni di musica e sballo di cui si è scritto e detto tanto. Tra le figure di riferimento diventate leggenda c’è Janis Joplin, che, oltre alle magistrali interpretazioni dal vivo, ha lasciato ai posteri quattro studio album, due da cantante dei Big Brother And The Holding Company e due da solista: il qui recensito e Pearl, dato alle stampe pochi mesi dopo la sua tragica dipartita. Della sua vita si è scritto e raccontato fin troppo e non sarò certo io a poter aggiungere dettagli a una storia tanto burrascosa quanto purtroppo breve; ma d’altronde, come avrebbe scritto un paio d’anni dopo Neil Young, «It’s better to burn out than to fade away», no?
Diamo quindi spazio alla musica, quella di I Got Dem Ol’ Kozmic Blues Again Mama!, registrato in soli dieci giorni nel giugno 1969, giusto due mesi prima della storica esibizione a Woodstock. Qui Janis Joplin si affranca dalla psichedelia dei Big Brother e abbraccia il blues rock a tinte soul, scegliendo personalmente i musicisti che la accompagnano (appunto, la Kozmic Blues Band): oltre a basso, chitarra e batteria, troviamo una corposa sezione di fiati e tastiere che nel corso dell’album si farà sentire assai, a tratti anche troppo.
Il disco si apre con l’energica Try (Just A Little Bit Harder), dove l’accompagnamento quasi funky si sposa alla perfezione con le arrampicate di Janis, in un inseguimento serrato che dura quasi quattro minuti, dopo i quali torniamo a un blues più classico, quello di Maybe, romantico e disperato grido di supplica verso un amore che se n’è andato. Il testo non è particolarmente articolato, ma cosa importa? Potrei ascoltare la sua voce soul che urla «Maybe, maybe!» per ore senza stancarmi. Straordinaria! Proseguiamo con One Good Man, uno dei soli due brani originali scritti da Janis, che non si discosta troppo dalla falsariga del precedente, anche se la band si fa più presente con un delizioso giro di chitarra blues rock che talvolta sembra addirittura sovrastare la potente voce principale. I musicisti di supporto furono reclutati dalla Joplin proprio per avere più libertà negli arrangiamenti, cosa che i membri dei Big Brother And The Holding Company non erano particolarmente propensi a concedere, e bisogna ammettere che la Kozmic Blues Band fa la sua parte alla grande. Proprio questa libertà di staccarsi dal rock psichedelico delle prime incisioni per esplorare strade funky, blues e soul vede il suo apice nel brano di chiusura del lato A di questo lp: As Good As You’ve Been To This World è un divertente calderone di musica dove i sax la fanno da padrone e quasi scalzano la voce.
Il lato B si apre con una cover del brano scritto dai Bee Gees per Otis Redding, ma mai inciso da quest’ultimo a causa della sua prematura scomparsa: To Love Somebody, qui oggetto di un’interpretazione clamorosa e struggente che demolisce l’originale su tutti i fronti. Come nel lato A a Maybe fa seguito l’elettrica One Good Man, anche qui a una dolce canzone d’amore ne fa seguito una energica e drammatica: Kozmic Blues. È difficile descrivere con le parole la sensazione di ripetuti pugni allo stomaco che ti danno questi quattro minuti di pura aggressività, come se Janis volesse urlare in faccia al mondo tutta la sua rabbia, il suo rancore, la sua vulnerabilità. Possiamo forse vedere Kozmic Blues come la prima parte di una trilogia intimista che prosegue con Little Girl Blue, dove un arpeggio di chitarra acustica e l’organo fanno da sfondo a un confronto con una sé stessa più giovane, magari dei tempi dell’high school in Texas, quando veniva sistematicamente discriminata dai ragazzini perbene per il suo aspetto e le sue inclinazioni; uno dei momenti più bui della sua vita. Conclude questo “mini concept” Work Me, Lord, canzone che chiude l’album con i suoi inusuali sei minuti e quarantacinque secondi, un lungo faccia a faccia con Dio dove la piccola, fragile Janis si lascia andare alle emozioni, prega e supplica di non lasciarla sola. Sola come fu un anno più tardi, quando venne trovata morta nella stanza d’albergo a soli 27 anni, con il secondo disco solista in fase di stampa e una leggenda che era appena agli inizi.
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