Giulietta Nervosa - Banzai Samurai Kamikaze
Disco di difficile “catalogazione”, questo Banzai Samurai Kamikaze dei Giulietta Nervosa. La cosa forse meno sbagliata è dire che è un album di grunge contaminato da varie influenze. Cominciamo dal lato “negativo”: la registrazione (che risale al novembre 2000) non rende giustizia al suono, in alcuni punti un po’ disturbato. Eccezion fatta per questa pecca (che peraltro non riguarda il nocciolo della questione, cioè la musica), ho ascoltato un disco interessante, suonato bene, molto ricercato nei testi.
Pittura, il primo brano, dissolve in apertura (attacco già particolare), ha un giro grunge tranquillo, il climax ascendente/discendente (che poi si ritrova praticamente in tutto il disco) corrisponde fondamentalmente all’alternanza strofa/refrain, il cantato di Saul è un marchio di fabbrica, preso male ma al contempo rabbioso, e nelle strofe spesso al limite dell’apnea (i versi cantati si concatenano uno dopo l’altro, che a provare a cantarli dopo bisogna fare il classico “respirone”), il testo è molto ricco dal punto di vista compositivo (ma questa è davvero una costante di tutto l’album), e ammicca spesso a rime non tradizionali, volutamente ripetitive, giochi di parole.
La 2 è Inferni Interni, ha una struttura simile al brano di apertura, parla di un amore finito/spaccato/irraggiungibile, vari riferimenti “paradisiaci” (angeli, ali che «non vogliono più sbattere») per contrasto con l’inferno interiore, musicalmente alterna ancora calma e rabbia. Parte invece subito forte Unduetrestella!, già nel titolo primo riferimento palese a un universo infantile di giochi, di sogni e di favole che mi pare importante per comprendere l’approccio generale alla stesura dei testi. Anche qui, il senso di soffocamento si fa sentire («Sogni chiusi in scatola»), il bisogno di “respirare” è forte, manca l’aria, canta Saul «Questa testa è paranoica / Salta cade e poi si dondola / Lesta resta desta e mormora / Testa esplodi come un’alba», non rinunciando, come si diceva prima, a soluzioni stilistiche singolari nel testo. La chitarra viaggia più veloce, ha anche un suono più duro, ma anche qui si ritrovano punti di “mare calmo”. Il trip finisce con «saltuarie cibarie d’aria», un «non vale» che ancora fa venire in mente i giochi che si facevano da bagoli, per concludersi con un volo «Sulle nuvole, appesi a testa in giù / Come volevi tu». La quarta canzone è Vulvanauta, parodia verdeniana che si restringe al titolo, e che comincia troppo bene: «Indicativamente per lo meno suppergiù». La musica continua a farsi grossa nei refrain, ad affievolirsi durante le strofe, la cosa più bella del testo: «Che sapore ha la grazia ricevuta da sua maestà», ma la parola più significativa è lo «Sterile» urlato nel ritornello. «Con tutte le forze che ho a disposizione / Artefice e padrone del mio malessere / Sterile». Il brano finisce con coretto svarionato («Wowowowo») + canto da stadio e battute in sala di registrazione.
Narcobaleno (Turkish) è senza dubbio il pezzo più particolare del disco: inizio con canto orientale, poi grunge forte, duro, veloce ma con giro kashmiriano, dopo un paio di minuti tutto torna a un aspetto più tradizionale, presomalismo cattivo (causa esperienza amorosa + pacco annesso), e ancora riferimenti a un’introspezione continua e dolorosa («Dentro di me / Dentro di me», ripetuto ossessivamente), il finale ritorna progressivamente al giro orientaleggiante per chiudere col botto come era cominciato.
Favola Cattiva + Zanzara è di nuovo più morbida, depressa, tante altre scelte particolari e inusuali accostamenti nel testo, dalla «Piccola morte», «La maschera mia / Che scivola via», «All’atto pratico / Ti mando a fare in culo / Troppo tardi per salvarmi». Di fatto, il “+” nel titolo segna quella che è una divisione tra le due parti della canzone, equamente distribuite: intorno al minuto tre (su sei minuti di pezzo), arriva la «zanzara» che succhia l’anima, il tutto assume un tono più veloce, incazzato, stoppate e riff più pesi, «Sayonara la zanzara».
Lintro chiude il disco, brano più breve della media. In questi due minuti finali (molto belli) un fantasma (simbolico? Reale?) rievoca periodi di felicità, «Perché son morto / E non me ne frega un cazzo / Del mondo che mi circondava / Ormai è soltanto / Un bel ricordo / Che magica sorpresa / Sei stata tu», la persona descritta è una sorta di angelo (torna la tematica del paradiso), con giusti e attuali paragoni («Sei meglio dell’LSD»). La musica segue in modo quasi spontaneo questa dichiarazione, dolce, non sale di tono, è quasi una ninna nanna. Un ritorno al testo, per segnalare il verso che mi è piaciuto di più in tutto il disco: «Nella mia gola miagola una sola parola», e sembra (magari è solo una mia impressione) che nel cantarlo a Saul scappi una risata frenata. In sottofondo, vari versi/pianti/grida… Una micro ghost track e fine del disco.
Una mezz’ora di grunge contaminato, dicevamo: sì, o più semplicemente un rock dolce/amaro, una fiaba, spesso difficile da mandar giù, ma in certi punti dolce come una ninna nanna. Viste poi le tematiche trasversali ben delineate, il rapporto tra inizio e finale dell’album, credo si possa davvero definire questo disco un concept.
Ultima menzione speciale alla bella, strana pecora in copertina (“får”?).
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