Egonauta - Egonauta
Egonauta. Viaggiatore dell’io. Un’entità che si imbarca non nei fiumi ma nelle vene, che cammina non per le strade ma per le ossa, che decolla non nel cielo ma nel cervello.
Questo disco fa così. Non mi capita spesso di ascoltare qualcosa che si possa realmente definire penetrante. Questo disco sì.
Le canzoni (termine che in questo caso risulta parecchio fuori luogo) sono cavalcate soniche per lo più interamente strumentali (l’unico pezzo effettivamente cantato è Afterbay, il terzo del disco; qualche parola viene pronunciata anche nel secondo brano, di cui però parlerò dopo). L’ultimo brano, Dilatazione, di quasi dieci minuti (contiene nel titolo la sua stessa natura!), è il più intenso e presenta tutte le caratteristiche della musica degli Egonauta: effettistica molto ricca sulle chitarre (si passa dal più morbido e psichedelico slide al muro sonoro delle distorsioni più pesanti, con tutte le sfumature che potete immaginare tra questi due estremi); ritmi sempre cangianti e spezzati, con accostamenti insoliti, dal 4/4 più tranquillo ci si può ritrovare, pochi secondi dopo, a cercare di seguire un ritmo strano e sincopato; basso che non si limita a sostenere una parte ritmica, ma che esegue una vera e propria melodia che reggerebbe anche se presa singolarmente (d’altronde, chi conosce le doti di Cippe anche nei suoi precedenti gruppi, capisce che sarebbe stato quantomeno limitante relegarlo al ruolo di bassista “comune”).
Nei pezzi cantati, la voce di Molo è mutevole come gli altri strumenti: sulle note più pesanti di Go!Dog (il secondo brano, dal titolo palindromo, a cui accennavo più sopra) è disperabbiosa, poi la canzone prosegue in quella che per comodità chiamerò “strofa” e la voce si affievolisce come tutto l’insieme, poi torna su nel (non) refrain. Questo è, tra le altre cose, l’unico brano proposto come demo di studio. Le altre tre tracce sono invece state catturate durante esibizioni live, peraltro registrate in modo buono.
Un enigma è per me la prima traccia, Venus In Fur, che porta quasi lo stesso titolo di un celebre pezzo dei Velvet Underground, ma ne stravolge totalmente struttura e melodia, fino a risultare irriconoscibile. A questo livello, non credo si possa parlare di cover. Un omaggio, dunque?
Il rock degli Egonauta non è semplicemente (leggi “complessamente”) “post”, è post-atomico. Le quattro tracce (per una durata di 26 – ! – minuti) mi hanno evocato immediatamente uno scenario da “mondo del domani”, una prospettiva fatta di lunghe carrellate e panoramiche su deserti post-nucleari, su mari infiniti post-scioglimento dei ghiacci polari, su palazzi distrutti e disabitati post-epidemia finale. Il mio giudizio è sicuramente influenzato dal fatto di aver assistito a un concerto del gruppo, concerto che, una volta entrato nella giusta atmosfera, ha suscitato in me un effetto che non esito a definire ipnotico.
La musica degli Egonauta è la colonna sonora del nulla.
Uno dei migliori dischi di un gruppo emergente che io abbia mai ascoltato.
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