Druids - Vol 1
Mi piace scrivere queste righe in un 29 febbraio (non capita tutti gli anni: solo ogni quattro) e mi piace scriverle a mezzo secolo dalla posa della prima pietra miliare dell’heavy metal, cioè quell’esordio omonimo dei Black Sabbath che, uscito venerdì 13 febbraio 1970, spaccò la storia del rock come un fulmine fa con una quercia durante una tempesta. Ebbene, non giriamoci intorno: se siamo devoti al culto del doom, se siamo schiavi del riff, se vogliamo bene a Ozzy, Tony, Geezer e Bill come a un quartetto di zii fattoni che fanno conoscere ai nipotini la musica del demonio durante la cena di Natale, non possiamo che essere felici se oggi, anno 2020, dalla nebbia cremonese fuoriesce un disco come questo. Vol 1, dei Druids, mette le cose in chiaro già dalla copertina, un omaggio al sabbathiano Vol 4 del 1972. E nonostante il gruppo, nato nel 2016, definisca questa uscita come un ep, per via del numero contenuto di tracce (cinque, più una fantasma), in realtà il lavoro dei Druids ha tutta la dignità di un full-length, non solo per la produzione, ottima e puntuale, come di consueto, a cura di Fabio “Flex” Guarneri presso LaMaison Studio, ma anche e soprattutto perché i pezzi, in media molto lunghi, fanno fermare il minutaggio poco sotto i 40 minuti. Luca Maggi alla voce, Marco “Ciccio” Signorini alla chitarra, Riccardo Ravani al basso e Gabriele Pantaleo alla batteria (quest’ultimo ha registrato l’album e ha poi lasciato il posto a Michele Magni) hanno proprio intenzione di collocarsi in quella galassia di band che dal combo di Birmingham prendono le mosse per poi, senza troppe elucubrazioni, aggiungere un po’ del proprio, come giusto. Per dare l’idea della nebulosa di riferimento, è inevitabile citare i nomi degli esponenti più noti e carismatici del doom (ogni volta che lo scrivo mi verrebbe voglia di aggiungere una valanga di “o” ad libitum) degli ultimi decenni: sono i Druids stessi, sulla loro pagina ufficiale, a elencare Sleep, Electric Wizard, Witchhelm, Khemmis, Saint Vitus, Pentagram, Black Label Society e The Sword tra le loro principali influenze, e ognuna di queste band citerebbe i Black Sabbath come proprio gruppo preferito.
Tali premesse, per la verità, risolvono in sé la questione: a chi garba ’sta roba lenta e potente, piena di chitarre solenni e bassi poderosi, cantata con enfasi, con testi di argomento epico o fantastico o immaginifico in generale, garberanno i Druids e Vol 1. E non solo per affinità di genere, ma proprio perché le canzoni sono riuscite: Lord ov the Riffs (sì, proprio «ov», come in tutti i testi del cd e come scrivono i polacchi Behemoth) ha un signor riff di chitarra, per l’appunto, suonato prima pulito e all’unisono col basso, poi ripetuto attraverso la distorsione fragorosa e acida che è propria del territorio del succitato rock da sedativi. Applausi al finale, lento e inesorabile. Mentre i miei pantaloni del pigiama si trasformano in jeans a zampa bianchi arriva Warship ov Doom (doppio gioco di parole: non solo «ov» ma anche «Warship», che scritto così significa “Nave da guerra” ma che chiaramente si riferisce anche al verbo “to worship”, cioè “venerare”, “adorare”, tipico dell’immaginario occulto). La chitarra di Marco ci trascina in un gorgo di accordi discendenti e mi piace come Luca le va dietro, nemmeno sfiorato dal pensiero di fare altro che non sia cantare bene, e infatti la sua voce suona clamorosamente datata, da leggersi come accorato complimento in un presente musicale in cui la capacità vocale sembra diventata un disvalore. Proceed the Weedians, che non sfigurerebbe come b-side da Dopesmoker degli Sleep ed è lunga come una processione, ha un refrain che si incolla al cranio e nel finale fa ricorso addirittura a una citazione biblica (per il resto, i testi potrebbero essere fregati al cassetto degli inediti di Geezer Butler. Esempio: «Walk through darkness / In a world ov nothing»). Insistono (e fanno bene), i Druids, a nascondere significati dietro significanti: la traccia 4, una decina scarsa di avventurosi minuti, s’intitola You See Far, qualcosa tipo “Ci vedi lungo”, ma la pronuncia complessiva non può che far risuonare tra i nostri padiglioni auricolari il nome anglofono di Lucifero, ex-cherubino convertitosi al Male. Grossi accordi di chitarra scandiscono il finale dilatato e il basso di Riccardo aggiunge le giuste note, con inventiva, senza strafare. Come da tradizione, è un breve segmento riprodotto al contrario a introdurre Acid Goat, sulla cui base sporca e quasi materica si innesta la voce trasognata di Luca. Stu-pen-do il riffone monolitico in mezzo al brano. La traccia bonus si chiama Halloweed our Wizard e, pur apprezzabile, non è accreditata perché si distacca in qualche misura dalle sonorità del resto dell’album: suona un po’ più galoppante e meno marziale, un po’ più 1978 e meno 1970, per intenderci.
A parte la soddisfazione personale nell’accogliere una band cremonese che suona e i cui membri sono abbastanza giovani, un plauso (al di là dei gusti) va ai Druids stessi, che curano per bene ogni aspetto della produzione. Non sono il più grande fan dell’ascolto in cuffia, ma in questo caso mi sembra il modo migliore per apprezzare la qualità di Vol 1, naturalmente a volume sostenuto. Un invito finale, classico ma doveroso, a chi leggerà queste righe bisestili: andate a vedere i Druids in concerto!
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