Big Fish - Le storie di una vita incredibile
Ieri ho assistito a quella che viene descritta come la raggiunta maturità di Tim Burton. Ciò che temevo era di trovarmi di fronte a una favola fantastica, fantasiosa e buonista.
«Sai pilotare un aereo?».
«Certo, ne hai uno?».
Le mie preoccupazioni, a conti fatti, erano fondate, dato che Big Fish – Le storie di una vita incredibile è la storia della riconciliazione tra un padre sognatore in fin di vita e un figlio vagamente materialista, che detesta l’egocentrismo del suo vecchio e che, allo stesso tempo, vuole saperne finalmente di più.
In questo teatrino di anziani boccaloni che prendono ogni spunto per raccontare di sé stessi e figli modello che sono stufi di stare ad ascoltare “frottole”, si inseriscono le sequenze stesse della vita fantastica del capofamiglia Bloom.
Bloom: un nome probabilmente non casuale, dato che nel corso delle peregrinazioni mirabolanti narrate dal letto di morte, il padre è stato anche un agente di commercio, il che non dista troppo da quel “pubblicitario affamato”, Leopold Bloom, protagonista, assieme a Stephen Dedalus (che in fin dei conti è il suo figlio mancato), di un’ordinaria giornata dublinese di un celebre romanzo del Novecento.
Le somiglianze con l’Ulisse, tuttavia, si chiudono qui, perché Big Fish, seppure sia di ambientazione per così dire contemporanea, prende spunto soprattutto da quelli che sono i “classici” del genere eroicomico. Giganti e mezzigiganti (il riferimento a Gargantua e Pantagruele credo sia abbastanza esplicito), pesci enormi, streghe, villaggi più o meno incantati, circhi itineranti, foreste impenetrabili, grandi (e assurde) imprese: Burton pesca con maestria dalle ricorrenze del genere.
Quella che forse è identificata dalla critica come l’acquisita maturità burtoniana coincide probabilmente con la scelta di non scadere nell’espressionismo più spinto, di gestire in modo pacato gli elementi introdotti, rimarcando sempre i buoni sentimenti dell’eroe, che è un uomo eccezionale, fedele, operoso.
Ecco cos’è la maturità: buonismo hollywoodiano sommato a dotte citazioni, mescolati con la maestria di un regista che di classe ha già dimostrato di averne parecchia.
Wow.
Be’, che (bella) merda, però.
Non c’è traccia di saraceni, di relazioni incestuose tra ecclesiastici; non ci sono bordelli, non ci sono tradimenti nascosti, non c’è un filo psicologico coerente (né interessante); non c’è uno schizzo di sangue (o quasi), non c’è ombra di pulsione fisica, non c’è abbandono alla tentazione, non c’è gusto per l’accumulo.
Mi chiedo in che chiave Tim Burton abbia “letto” quel ciclo di poemi eroicomici e romanzi picareschi. Ne ha estratto la parte digeribile e l’ha riproposta saggiamente, creando un artificio bello da vedere, ma che è privo della sua anima.
Non mi piace questo tipo di maturità artistica e intellettuale, francamente.
«Ho bisogno di un lassativo e allo stesso tempo non voglio sentirmi troppo merda, ma in fin dei conti sulla tazza sto cercando di cagare… Per cui leggo un libro e profumo l’ambiente con un deodorante, tipo agrumi di Sicilia. Intanto, spingo».
Ecco Big Fish.
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