Baustelle - I Mistici Dell’Occidente
I Mistici Dell’Occidente l’ho già macinato in tanti modi diversi, e a ogni ascolto mi piace di più.
Rispetto alla loro discografia, è in lineare continuità con Amen – a partire dal titolo.
Meno suonini elettronicosi à la Le Vacanze Dell’Ottantatre e ancora più cura nel super arrangiamento (notare che nei manifesti del tour, infatti, sotto al nome del gruppo c’è scritto anche: e l’Orchestra dei Mistici dell’Occidente).
I temi e le peculiarità dei testi più o meno sono ancora quelli, anche se forse un pochino meno adolescenza (l’amara spensieratezza di L’Estate Enigmistica, Le Rane) e più delirio mistico, per l’appunto, e ovviamente ancora tanta tanta tanta decadenza e nostalgia (Il Sottoscritto, la struggente e sensuale L’Ultima Notte Felice Del Mondo, cantata da Rachele).
Tutto il disco per me vale fosse anche solo per la successione dei primi due pezzi, L’Indaco e poi San Francesco, che messi in quell’ordine mi distruggono completamente, forse per il contrasto che creano.
L’Indaco è la più soave delle aperture, una promessa di cura («Non angosciarti più»), infinitamente sospesa, distesa: «E non soffrire più / Che in fondo forse c’è / Al di là di Gibilterra / Un indaco mare».
(Tra parentesi: questo disco si chiude con gli stessi toni con cui si apre, con le stesse carezze, ma arrese, ne L’Ultima Notte Felice Del Mondo: «L’ultima notte felice del mondo / L’ultima notte importante per dimenticare di essere soli / Di essere soli da sempre».)
Dopo L’Indaco, dicevo, esplode San Francesco, che attacca con una chitarra asciuttissima che pare corromperti, bruciando su un testo interiore, ma melodicamente agguerrito: Ok, ti abbiamo cullato, ti abbiamo detto che ti faremo stare bene, ma ora lascia fare a noi, per stare bene dobbiamo distruggerti e poi ricucirti!
Comunque io sono fottutamente di parte, perché i Baustelle li adoro.
Chi li detesta continuerà a detestarli, non ci sono dei cambiamenti chissà quanto stravolgenti.
Per un fan, invece, credo che quest’album sia un nuovo potentissimo pasto di cui nutrirsi, una conferma. Per non parlare del fatto che, se sei caduto nel vortice dei Baustelle, non ci sarà nient’altro in cui troverai quelle emozioni (o, se c’è, ignoranza mia che non conosco). I Baustelle sono una ricetta troppo originale. Oserò una parolaccia: credo siano stati davvero innovativi nel loro modo di miscelare le canzonette (gloria alla sintesi che sa andare a pescare nei nostri archetipi e nelle nostre forme base) insieme alle melodie e alle liriche più drammatiche e spirituali (un po’ a mo’ di colonne sonore – pensavamo già prima che lavorassero per Giulia non esce la sera).
Tutto l’oro del mondo solo per le ultime strofe de Gli Spietati, un crescendo strumentale sotto la voce lontana e sintetizzata di Francesco che elenca terrori come scariche. Gli Spietati è anche il singolo; peccato per il videoclip che, come un po’ tutti quelli che mi è capitato di vedere dei Baustelle, mmm, no, non mi piace (meglio però di Charlie Fa Surf o La Guerra È Finita, che avevano addirittura la forza di buttare giù i brani).
Credo che la pecca dei loro video sia quella di fomentare l’idea che i Baustelle siano dei poser – idea che, comprensibilmente, penso abbiano in molti. Naturalmente non è ciò che penso io, ma si fa sempre fatica a fare luce con onestà in un ambito così intimo di un personaggio pubblico, perciò tanto vale fidarsi delle sensazioni. E a me le sensazioni suggeriscono totale sincerità e aderenza con il loro modo di essere; lo avverto dalla musica, ai testi, ai live. Di quello che sono realmente i Baustelle, secondo me, nei video restano solo loro stessi, intesi come persone fisiche. I volti, fortunatamente, credo abbiano comunque estrema comunicativa, certo, ma questo non basta per salvare un intero video. La banalità dei loro video è davvero disarmante rispetto all’originalità della loro musica – è per questo che mi scaldo.
La Canzone Della Rivoluzione è la quarta canzone dei Baustelle che si chiama La Canzone De…, e già questo mi strappa un sorrisetto, è una piccola sicurezza, forse un capriccio, è un piccolo feticcio. Soprattutto, La Canzone Della Rivoluzione mi ricorda che i Baustelle sono uno dei pochissimi gruppi che, per la mia personale sensibilità, hanno ancora una seria presa politico-sociale nei loro testi. Nel mio politeismo personale, ancora non ha eguali la loro Il Liberismo Ha I Giorni Contati, che era in Amen. Nella desolazione attuale (nella quale io pure perdutamente sguazzo, intendiamoci), i Baustelle sono gli unici a risollevare i miei sentimenti sociali più ancestrali, a sussurrarmi un’ultima speranza. Potrei scriverne per ore per spiegare questo strano effetto che mi fanno, ma diciamo solo che loro sono in grado di ricordarmi il perché, il maledetto e dimenticato motivo per cui mai ancora ha senso fare qualcosa per la nostra società. Nell’era della comunicazione non serve essere informati, potenzialmente lo saremmo tutti. Abbiamo solo bisogno di un disperato motivo per farlo (questo è ciò che penso – con per unica autorità l’avere ventun anni oggi). Ci vuole coraggio per cantare questi versi come niente, come proiettili di gomma colorata: «Per i cristi assassinati senza una verità / Per i vivi e i morti che santifica il caso / Per il pene e la vagina / E per quel che era sacro / E non è più / Fallo perché gli ultimi diventino i primi / Per la tua coscienza lurida lavata a metà / Per Andrea di Mestre / O per Maria di Matera / Per il pane e la gallina che non ci sono più». E poi levare un canto angelico: «Avanti amore / Perduto in mare / Trent’anni fa / Fatti canzone / Rivoluzione / Vamos a matar».
La Bambolina, frenetica nei cori e nell’aggressiva trama ritmica, invece è dolcissima, con quelle melodie che solo la voce blu e passionale di Rachele sa cantare. La Bambolina già te l’immagini davanti gli occhi e vorresti abbracciarla, proteggerla.
Anche questo album, nonostante le soluzioni di sintesi di cui sopra, è farcito di citazioni e riferimenti, quindi via al gioco di chi risolve il puzzle per primo. Personalmente, ora non mi spendo troppo, perché, ahimè, dovrei ridurmi a invocare San Google (ma forse questa volta verrebbe ampiamente battuto da qualche telefonata ad amici più colti della sottoscritta). Probabilmente quello del loro mondo ipercitazionista e alle volte un po’ criptico è un altro dei punti che vengon loro criticati, magari in doppietta con la questione della posa. Ancora una volta non sono d’accordo: al contrario mi intriga la loro maniera di giostrare queste imboccate con testi più semplici, che rendono i loro brani un territorio accogliente per tutti, ma con un valore aggiunto per chi vuole, o per chi può. Io per prima mi perdo senz’altro moltissime sottotrame, ma in questo modo i loro pezzi diventano dei mondi sempre da rileggere, mai noiosi, sempre stimolanti. La penso esattamente come lo stesso Francesco Bianconi, in un’intervista per La Stampa: «Si parte dall’orecchiabilità, certo, ma poi a forza di cantare ogni tanto si finisce per pensare. Essere oscuri dà a chi ascolta il compito di cercare il senso nascosto». O come disse per XL ai tempi de La Malavita: «[…] ma l’importante è riuscire a scrivere testi musicali. Battiato ad esempio, con La Voce Del Padrone, ha fatto un disco di canzonette pop, ma ha fatto cantare alla gente lo “shivaismo tantrico” o “minima immoralia”. Questo si può definire “avanguardia di massa”, cioè sperimentazione anche estrema, ma alla portata di tutti. È il massimo che si possa fare in un sistema capitalistico. O fai la rivoluzione con mitra e bombe, oppure fai il tarlo all’interno di questo sistemaccio».
Chiudo con gli ultimi versi della title track, convinta che sia totalmente comprensibile anche senza sapere che è praticamente la preghiera di un anarchico: «Saremo santi disprezzando la realtà / E questo mucchio di coglioni sparirà / E né bellezza o copertina servirà / E siamo niente siamo solo cecità / Pesci avvelenati in mezzo al mare / Questo il presidente non lo sa».
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