Ulan Bator – Live @ Freemuzik, Brescia, 12/03/2005
Si discute spesso di quanto una band meriti il posto che occupa all’interno del panorama musicale. Bene. Esiste un inspiegabile abisso tra quanto di buono siano in grado di regalare gli Ulan Bator e la poco rilevante attenzione che pubblico e critica gli dedicano realmente.
Gli Ulan Bator sono un signor gruppo, gente. Per chi non ha nemmeno idea di chi siano, chi non ha mai ascoltato un loro disco, chi non ha ancora avuto l’opportunità di sentirli dal vivo, c’è ancora tempo per voi. Gli Ulan Bator sono in tour. Andate a sentirli.
Brescia, Freemuzik. Locale pieno, sabato 12 marzo. Sul palco Amaury Cambuzat, Matteo Dainese, Manuel Fabbro. In arte, Ulan Bator. Sotto il palco, facce nuove e facce note, molti curiosi, alcuni fedelissimi. Contesto ideale per concerti, atmosfera coinvolgente, volumi alti. Le premesse ci sono tutte. La musica degli Ulan Bator richiede una cosa, per farsi godere: concentrazione, coinvolgimento. È come un ordine: staccare la spina al cervello e riconnetterlo solo quando essa sarà finita. Segue le istruzioni diligente, il pubblico. E alla fine, ringrazierà. A tracciare la rotta del viaggio sono chitarra, basso e batteria, con la preziosa collaborazione di piano elettrico e xilofono. È il tour di Rodeo Massacre, ultimo gioiello della band italofrancese appena uscito per Jestrai, ma il concerto è un percorso a ritroso che premia anche episodi diversi della discografia Ulan Bator. Il rock che si dilata nelle ossessioni del post rock, il post rock che si ricama delle sfumature noise e si inchina a sua maestà Dissonanza. La voce di Amaury, impeccabile, canta francese e inglese, e dimostra di aver gradito e ben assorbito un ventennio di lezioni a New York, Murray Street, professoressa Kim Gordon. C’è tanta Gioventù Sonica nella musica degli Ulan Bator, ma mai si ha la fastidiosa sensazione del copia e incolla. Basta aprire gli occhi un secondo e guardarli sul palco per capire che è tutta farina del loro sacco: le dita di Amaury si piegano e si storcono in acrobazie sul manico della chitarra, mai un accordo che sia uno. Il basso corre dritto, sempre molto presente, tessendo per la voce il tappeto melodico. La batteria subisce l’assalto di un Manuel Fabbro semplicemente irresistibile, capace di coniugare energia, presenza, precisione e dosi massicce di creatività. Un’ora vola senza nemmeno accorgersene, poi i tre salutano il pubblico. Il quale, avendo apprezzato, pretende di più e invoca a gran voce il ritorno sul palco. Accontentato, e meno male. Gli Ulan Bator si erano tenuti per sé la loro espressione più estrema, racchiusa in dischi ormai con la polvere ma ancora pronti in agguato. Ed eccoli così tornare sul palco e regalare anche quell’espressione. Un pezzo solo, venti minuti di musica iniziata con due piatti della batteria, già in parte rotti, scagliati a terra e percossi, pestati, lanciati sulle assi del palco. Accucciato all’angolo, Danese abbandona il basso per lo xilofono. Poi abbandona il palco, spintona la folla, compie un giro del locale e torna al basso. Amaury, chitarra in mano, pizzica senza sosta le corde e sussurra l’angoscia. Poi, senza che nessuno si accorga come, e questa è la magia, la musica cresce lentamente, così gradatamente che finisce per catturare ogni singola mente, scandisce il respiro, il battito del cuore, aumenta, cresce, aumenta, cresce, aumenta, cresce. Esplode. Trasportazione totale. Ora possono andarsene, quei tre là sopra. Con la soddisfazione di esserci riusciti. Chi ne ha goduto, sotto il palco, ne ha avuto la prova o tutt’al più la conferma: ci sono realtà musicali che meriterebbero molto più di quanto raccolgono. Molto di più.
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