Queen + Paul Rodgers – Live @ Datchforum, Assago (MI), 28/09/2008
«I honestly never heard such a two and a half hour roar, in my life, as in Milan, in our show…
A joyful noise changing shape every second, as the dynamic between us and the gathered folks evolved.
They MADE us rock harder!!».
Brian May sul suo sito ufficiale
Ho da poco ventisei anni. Posso quindi dire che da quattordici anni, da quando ero poco più che bambino, il mio gruppo preferito sono i Queen. Nel settembre del 1994 comprai in cassetta News Of The World, l’album con We Will Rock You e We Are The Champions, e da quel momento nessun altro gruppo si è così profondamente radicato in me. Non parlo solo di ascoltare i dischi un milione di volte, conoscerne a memoria tutti i testi senza esitazione e così via: parlo ad esempio dell’influenza esercitata nella mia vita da Freddie Mercury, che – almeno nell’idea che di lui mi sono fatto attraverso biografie, video e altro – è probabilmente l’unica persona ad aver realmente condizionato il mio modo di essere, oltre ai miei genitori. Parlo della gioia di ricevere in regalo (per il quarto di secolo – grazie Davide, fottuto rocker) il vinile singolo di Bohemian Rhapsody e metterlo sul giradischi gustandolo con l’attenzione e l’entusiasmo di un primo ascolto. Oppure penso a quando, per i miei ventiquattro anni, un po’ di amici hanno stuzzicato la mia passione per le tamarrate facendomi trovare all’aperitivo di compleanno una gigantesca action figure di Freddie a Wembley ’86, con frammenti audio incorporati azionabili con il più classico degli interruttori sulla schiena. E compivo ventitré anni quando mia cugina mi donò il prezioso libro Queen. La biografia ufficiale. Sforzandomi con la memoria, potrei continuare a risalire gli anni scandendoli con le tappe della mia queenofilia, ma mi fermerò. Sul muro in camera mia c’è un disegno fatto da mia cugina, che ritrae Freddie in tutina, in una delle sue classiche pose anni Settanta, corredato dalla scritta You Live Forever – And Our Love Cannot Die. Ed è davvero così, senza retorica. Ogni 5 settembre mi sveglio e penso: «Oggi compirebbe gli anni», ogni 24 novembre mi sveglio e penso: «Chissà cosa starebbe facendo se fosse vivo». Ma Freddie è vivo per me, e per tutti gli amanti dei Queen di questo mondo, ogni volta che lo ricordo, ogni volta che ne sento la voce impossibile, ogni volta che lo vedo muovere un dito e dirigere la folla sterminata di uno stadio, ogni volta che rido di gusto raccontando a qualcuno aneddoti sulla sua sfavillante esistenza.
Torniamo ad anni recenti: con una scelta che ha fatto storcere il naso a molti (me compreso, ai tempi), nel 2005 Brian May e Roger Taylor, chitarrista e batterista storici dei Queen, hanno deciso di conservare il nome della band (dimezzata dalle assenze di Freddie e del bassista John Deacon, da circa dieci anni ritiratosi a vita da rockstar miliardaria in pensione), mettendo in piedi un tour con alla voce Paul Rodgers, cantante di grandi (seppur oggi poco ricordati) gruppi hard rock come i Free e i Bad Company. È vero, certo, che c’è quel “+” a distinguere i Queen originali dalle forze aggiuntive, ma è anche vero che i tre vecchi leoni del rock avrebbero potuto ribattezzarsi sotto altro nome, evitando critiche e problemi di sorta (questa è la mia personalissima opinione). Ad ogni modo, così fu: Queen + Paul Rodgers. Proprio in virtù del mio iniziale scetticismo, non ero andato a nessuna delle ben quattro date italiane. Quale insano errore! Fortunatamente la vita concede (quasi) sempre un’altra possibilità.
E così arriviamo a pochi giorni fa: il progetto, che tre anni or sono si era “limitato” a consistere in una serie di date dal vivo, è adesso sfociato in una collaborazione stabile, i cui risultati sono la pubblicazione dell’album in studio The Cosmos Rocks e il conseguente tour. Da buon maniaco, mi sono attivato per ascoltare il disco in anteprima, e così ho rimediato due posti per la Italian Album Premiere che si è tenuta il 10 settembre al Rock’N’Roll di Milano, facendomi accompagnare dal caro Andrea. Nel corso della serata, organizzata dal fan club ufficiale italiano, il nuovo album è stato proposto interamente e, tutto sommato, ben accolto dai superfan riuniti nel seminterrato del locale (c’era un’atmosfera carbonara). Le facce tese per la scarsa fiducia si sono a mano a mano rilassate: dai pezzi hard rock alle ballate, fino agli scherzetti in stile Queen disseminati qua e là, il disco è piacevole e, come si suol dire, si lascia ascoltare volentieri. D’altro canto, non c’è nulla di male nel voler rockeggiare a sessant’anni, e Brian, Roger e Paul dimostrano di volerlo e saperlo ancora fare. La vera pecca di The Cosmos Rocks è la copertina: il cielo stellato, che richiama il titolo del disco, a sua volta legato agli studi di astronomia di Brian May, è anche bello; ma le scritte e la fascia inferiore stonano decisamente.
Siamo dunque al gran giorno: domenica 28 settembre 2008, Datchforum di Assago. Scesi dal bus navetta farcito di gente, eccoci in coda dalle tre e mezza del pomeriggio, Zazzi e io. In coda sotto un sole di fine settembre che riesce ancora a darmi fastidio, picchiettando sulla mia t(rash)-shirt nera con la scritta Freddy – The King Of The Rock (sacrilegio! Si scrive “Freddie”! C’è un “The” di troppo!), un ennesimo regalino queeniano (appena ricevuto da Stella) che indosso con orgoglio. Già, le magliette. Una su cento è bella. C’è un ragazzino ricciolone dai jeans ultra flared, che sfoggia uno splendido Brian May anni Settanta in bicromia. Ci sono degli heavy metal che ne sanno, e si buttano sui loghi d’annata. Ma l’abbigliamento di quasi tutti è un coacervo di scempiaggini, sembra una gara a chi ha comprato la porcata peggiore. Tra i vari capi di vestiario che i venditori ambulanti pubblicizzano in mezzo alla fila, c’è addirittura il perizoma marchio Queen, non esattamente un prodotto ufficiale.
Il tempo passa, in qualche modo, seduti per terra, nel serpentone di ferro. Chiacchiere sui Queen (la questione più interessante riguarda il perché li amiamo così tanto) e altro, uno scambio di battute con i vicini. Alle sette vengono aperti i cancelli. Se conoscete la struttura del Datchforum, sapete che la corsa per accaparrarsi i posti migliori è una specie di Gran Premio della Montagna: decine di gradini in salita per entrare, decine di gradini in discesa per guadagnare il parterre. Guidati dall’istinto e dal buon senso al tempo stesso, ci catapultiamo in quella che si rivelerà la Posizione Migliore della Storia del Cosmo Rockeggiante®: lo spigolo sinistro del b-stage, il palchetto centrale secondario, collegato al palco principale da una passerella. Insomma, non siamo tradizionalmente in prima fila, ma se tutto va come deve andare… E ci andrà, oh, se ci andrà!
Intanto mi arriva la telefonata benaugurante di Davide, che mi chiede se si respira aria di leggenda. La mia risposta è ovvia, visto che la tensione cresce (Zazzi me la legge in faccia subito), non è previsto alcun opening act (voglio dire, chi è degno di fare anche solo da spalla ai Queen?) e le nove si avvicinano. Per fortuna, a tratti mi distraggo, partecipando ai cori diretti da un sosia giapponese (!) di Freddie, che riproduce per filo e per segno i celebri vocalizzi che avevano echeggiato in quel di Wembley.
Alle nove in punto, le luci si abbassano, e sul maxischermo viene proiettata una lunga animazione tridimensionale: moti planetari, esplosioni galattiche, collisioni stellari…
Qualche minuto dopo, il sogno di una vita si realizza.
Sul palco si materializzano Brian May e Roger Taylor.
Li sto vedendo con i miei occhi, non in fotografia, non in video. Lo stordimento è tale che non capisco nemmeno che cosa stiano suonando. A centro palco c’è Paul Rodgers, che soffia nella sua armonica. A ben vedere, sullo sfondo si scorgono altri tre musicisti. Ma io sono assolutamente, completamente coinvolto solo nell’esperienza visiva dei miei due idoli. Quando Rodgers comincia a cantare, torno parzialmente sulla Terra. Ah, ok, è la giovanilista Surf’s Up… School’s Out!, una delle canzoni più divertenti del nuovo disco. Ma non è importante, la funzione principale del pezzo è quella di concludersi, e lasciare che il vero concerto cominci. Quando Brian, in camicia bianca, fa vibrare la sua Red Special, la leggendaria chitarra nata anche prima dei Queen (sto vedendo con i miei occhi la Red Special, non è una replica, non è un modello simile, è l’unica, vera, sola Red Special), e attacca col riff devastante di Tie Your Mother Down, io piango. Per la precisione, caccio fuori un fiume di lacrime senza senso, ché un manzo di ventisei anni che frigna così non è nemmeno bello da vedere. Ma provare a ricacciare indietro quell’emozione mi avrebbe probabilmente fatto implodere. Non vi tedierò con i miei continui, incontrollati pianti di gioia, che da lì si ripresenteranno per tutta la durata del concerto: immaginateveli da soli. Ogni cinque righe, diciamo.
Quando Brian prova a prendere la parola, dopo la fine della canzone, per i saluti di rito, deve prima aspettare che i quindicimila del Datchforum gli tributino almeno un assaggio di tutta l’adorazione che hanno per lui. I cori e gli applausi sembrano non voler finire mai; lui stesso è quasi in imbarazzo davanti a una tale dichiarazione d’amore. Ad alimentare questo circolo virtuoso è subito un altro classico rock’n’roll degli anni Settanta (il mio materiale preferito nella nutrita discografia dei Queen), Fat Bottomed Girls. Sempre in botta emotiva completa, vedo avvicinarsi Paul, che viene a cantare fino al b-stage. Ben contento di averlo lì, ma voglio Brian. Puntuale, mentre spara i suoi accordi metallici, May percorre la passerella leggermente di corsa, per fermarsi a qualcosa come un paio di metri da noi. Incredulo e ipereccitato, non posso fare altro che aggregarmi al coro generale: «Oh won’t you take me home tonight? / Oh down beside your red firelight / Oh and you give it all you got / Fat bottomed girls you make the rockin’ world go round».
Durante l’assolo finale faccio la fotografia più bella e importante che abbia mai scattato, e mai scatterò.
Dal fondo nero emerge Brian, ritratto sul profilo destro, la Red Special perpendicolare al corpo, quindi tutta in vista. La messa a fuoco è ottima. Nella parte bassa dell’immagine, un paio di fan stanno tendendo le loro sciarpe dei Queen.
Sono sbriciolato. Il concerto potrebbe anche finire lì, ho già provato la più violenta scarica di adrenalina di sempre. Ma siamo appena all’inizio. Mentre Brian indietreggia, cerco un momento di relativo silenzio e, con tutto il fiato che ho in corpo, gli urlo che lo amo. Spero mi abbia sentito.
Fortunatamente per le mie coronarie, è il turno di Another One Bites The Dust. Leggendaria, certo, tutta groove, ma da me un po’ meno adorata delle precedenti. Il punto di forza del pezzo è ovviamente l’energico giro di basso, per cui presto attenzione al turnista Danny Miranda. Vedo poi Jamie Moses, alla seconda chitarra, ma soprattutto, in veste di tastierista, Spike Edney, uno che era sul palco a Wembley a raddoppiare la chitarra di Brian durante Hammer To Fall. La maggiore lucidità (sempre relativa, lì c’è Brian May e là c’è Roger Taylor…) mi permette di accorgermi che l’acustica è fantastica. Si sente benissimo, cosa che nei concerti belli grossi di rock bello duro non è affatto scontata. Butto un occhio al maxischermo: le animazioni sono a tema western (il testo della canzone è quasi il racconto di un duello).
Si torna in zona hard rock con la storica I Want It All, una canzone che ai tempi non poté essere proposta dal vivo. Dopo il bridge c’è l’assolo di Brian, accompagnato da un cambio di ritmo forsennato di Roger. Ho sempre amato quell’accelerata, e il fatto di sentirla dal vivo mi fa fluttuare in una dimensione onirica. Possibile che tutto ciò stia accadendo realmente davanti a me? Dev’essere così, non sto sognando, e in questo senso I Want To Break Free è come un pizzicotto sulla guancia: Paul Rodgers di fatto non canta, si limita ad accennare il primo verso della canzone, per poi indirizzare l’asta del microfono verso di noi per tutto il resto dell’inno. Il favoloso Brian riprende la parola per introdurre il nuovo album e il singolo trascinante C-lebrity: riff teso, ritornello orecchiabile. Un pezzo hard rock come si deve.
Dopo un altro breve intermezzo di Brian, è la volta di Seagull, dal repertorio dei Bad Company, vecchio gruppo di Paul. Infatti Rodgers è da solo sul palco, voce e chitarra acustica. Gran bella canzone.
Intanto Brian si è cambiato, dal bianco al nero (sempre in camicia). Ritorna sul b-stage, e – ancora non lo sappiamo – ci rimarrà molto a lungo. Gli lanciano una rosa rossa, lui la raccoglie sorridente. Dopo la doverosa introduzione, arriva il momento più commovente del concerto, una dolcissima e malinconica Love Of My Life: Brian pizzica la dodici corde acustica come fosse un’arpa, lasciando a noi il compito di cantare. Il mare di voci all’unisono, come da tradizione, quasi sovrasta il suono della chitarra. Lo spirito immortale di Freddie Mercury è il destinatario di questa dedica collettiva, non c’è dubbio. Applausi con gli occhi lucidi, i nostri ma anche quelli di Brian, che si asciuga una lacrima con un movimento che, pur fugace, non mi sfugge.
Per la stupenda ’39, un must dei concerti dei Queen, Brian invita sul palchetto centrale Roger Taylor! Il mio batterista del cuore, di bianco vestito, foulard variopinto al collo e occhiali da sole (di sera, in un palazzetto al chiuso), fa la sua entrata da star, godendosi la passeggiata in passerella (tutti stravedono per lui). Brian si prostra scherzosamente davanti a Roger, alzando e abbassando le braccia, come a venerare una divinità orientale. Intanto i roadie hanno montato una grancassa e un microfono, tutto ciò che serve a Roger – be’, anche un tamburello – per tenere il tempo di questo «folk fantascientifico», come i Queen stessi l’hanno sempre definito. Il brano, ambientato in un futuro remoto, parla di una spedizione spaziale: gli astronauti, viaggiando a una velocità prossima a quella della luce, tornano a casa dopo quello che loro hanno percepito come un anno, mentre sulla Terra ne sono trascorsi cento. I temi del viaggio, del ritorno, della relatività del tempo sono messi in relazione con il ricordo dei vecchi concerti che i Queen tennero in Italia: per certi versi sembra passato un secolo; però, vedendo tutte le nostre «beautiful young faces», dice Brian, sembra anche che il tempo si sia fermato.
Conclusa la prima strofa, il pubblico è così rumorosamente affettuoso che Brian si inginocchia sul palco per ringraziarci! Dopo questa incredibile pausa, Brian e Roger sono raggiunti sul b-stage dai tre turnisti (Danny Miranda suona il contrabbasso elettrico, Spike Edney la fisarmonica) e il pezzo prosegue ancor più caldo e vivace. La gente è in delirio, alla fine della canzone.
A questo punto, proprio non me l’aspettavo, filano via tutti tranne Roger e Danny Miranda. Bacchette alla mano, Taylor picchietta a tempo sulle corde del contrabbasso mentre Danny tiene gli accordi, e il risultato sono i riff di Under Pressure e ancora Another One Bites The Dust! Roger Taylor adora divertirsi, e io adoro lui (e glielo urlo). Ancora sogghignante per la tamarraggine appena mostrata, Roger attacca un ritmo quadrato e veloce, ma davanti a sé ha solo charleston e cassa. Come fa a fare un bell’assolo?, mi chiedo. Semplice: un paio di roadie gli aggiungono i vari componenti della batteria mentre lui suona. Prima il rullante, poi un piatto e un tom, poi un altro piatto e un altro tom, poi il timpano e il ride, poi un altro timpano e i rototom… Pazzesco. E poi? I’m In Love With My Car, naturalmente! Brian è di nuovo sul palchetto con tutta la potenza della Red Special, ma è Roger il protagonista assoluto alla voce e alla batteria (il pezzo, dal titolo inequivocabile, è opera sua). Ma non è tutto: il brano successivo, la nuova power ballad intitolata Say It’s Not True, prevede più cantanti, e a Roger spetta la prima strofa, la più morbida. Brian canta la propria, la seconda, appoggiato a uno sgabello (tenete sempre presente che i due si trovano a tre passi da noi), mentre per il crescendo finale rientra sul b-stage Paul Rodgers, che sfoggia adesso una camicia verde pistacchio.
Tutti i musicisti riprendono posizione sul palco principale per fare un paio di pezzi dei Bad Company: l’omonima Bad Company (con Paul al pianoforte) e la potente Feel Like Makin’ Love, dove invece Rodgers si scatena, spingendosi fino alle passerelle laterali e dimostrandosi grande cantante e grande frontman, capace – anche con i propri brani – di catturare un pubblico che di certo non è lì per lui. Durante queste canzoni sono assolutamente conscio, tranquillo, sono tornato in me e mi sto godendo un paio di pezzi rock. Ma la chiamata dall’Iperuranio non tarda ad arrivare: subito dopo è il momento solitario di Brian con la chitarra, quello che ai tempi d’oro veniva chiamato Brighton Rock Solo. Il suono della Red Special, effettato da delay e distorsioni varie, mi porta da qualche altra parte, in un paesaggio ora naturale, ora mitologico, ora ultraterreno. Sono ancora confuso mentre l’ultima nota, tirata lunga, confluisce nell’inizio di Bijou, una ballata dei tardi Queen. Sul maxischermo, per la prima volta nella serata, appaiono immagini di Mercury. Dalle casse viene diffusa la traccia audio originale di voce e tastiera, mentre Brian fa piangere la Red Special dal vivo. Altro momento estremamente commovente.
Durante la lunga cavalcata strumentale di Last Horizon (appartiene alla produzione di Brian May post Queen), il mio adorato chitarrista appare su una passerella sopraelevata in corrispondenza del palco: si trova in pratica sopra la testa di Roger Taylor, e suona con alle spalle il maxischermo, che ora mostra meravigliose vedute cosmiche dai colori sgargianti.
Lo stadium rock è per definizione musica che stabilisce un contatto tra palco e pubblico: si crea un’atmosfera di unità per cui l’ultimo seduto in piccionaia si sente (e di fatto è) coinvolto come il fanatico schiacciato in prima fila. Una canzone concepita per questo scopo – soprattutto dal vivo, dove l’arrangiamento è più essenziale – è Radio Ga Ga (eseguita in versione abbreviata), che giocoforza genera il doppio battito di mani sincronizzato, una cosa da “altri tempi” del rock. Posto che – come si sarà intuito – tutti cantiamo per tutto il concerto, lo facciamo con intensità ancora maggiore sull’irrefrenabile Crazy Little Thing Called Love: il volume del pubblico nel gridare «Ready Freddie» raggiunge livelli da record! Poi arriva The Show Must Go On, brano che ormai, viste le vicende dei Queen passate e presenti, si può interpretare in vari modi. Paul fa roteare l’asta del microfono sul suo asse, i tre piedi girano come le pale di un’elica. Ha cantato alla grande per tutto il concerto, però, mentre lo sento “aggirare” le vette vocali più irraggiungibili della canzone, mi convinco una volta di più che nessuno tiene testa alla cristallina potenza di tuono di Freddie Mercury. E allora è giusto che Rodgers non ci provi nemmeno, e reinterpreti i pezzi filtrandoli col suo grande stile di matrice blues.
La camicia di Brian, la terza della serata, lontana dalla sobria eleganza delle due precedenti, va dall’arancione al verde e ha un gigantesco sole antropomorfo sul davanti: è tremendamente camp. Rido, ma subito dopo ho un momento di malinconia quando attaccano le note del capolavoro Bohemian Rhapsody, il primo brano che mi fa pensare al fatto che il concerto, presto o tardi, dovrà finire. Per la seconda volta, è il mastodontico Freddie su maxischermo a cantare e suonare il pianoforte, mentre Roger, Brian e gli altri accompagnano dal vivo la parte iniziale, cioè la ballata. La sezione operistica centrale («Galileo Galileo Galileo Figaro») viene proposta tramite la registrazione originale, come in tutti i concerti, mentre per il finale hard rock rientra Paul alla voce, ma tanto stiamo tutti cantando «So you think you can stone me and spit in my eye» così forte da far tremare il palazzetto. Gli applausi scroscianti fanno da colonna sonora all’uscita dei musicisti. I pochi minuti di attesa passano tra i cori, mentre do una stretta di spalle a Zazzi, che via telefono ha fatto sentire frammenti del concerto a un po’ di amici.
Il bis si apre con il nuovo pezzo Cosmos Rockin’, proposto in short version. Che dire, mi piace, è un rock’n’roll semplice, embrionale, con chitarre hard e un testo per ragazzini… Cosa chiedere di più? È poi il momento di All Right Now, il fondamentale brano dei Free del 1970 che ha ispirato tutto l’hard rock basato su secchi riff di chitarra (tipo AC/DC, per intenderci). È emozionante sentirla dal vivo, nobilitata dal suono inconfondibile della Red Special, e dev’esserlo anche per Paul, che a distanza di trentotto anni sente la sua canzone cantata a squarciagola da migliaia di persone.
Roger Taylor ha iniziato a battere due volte sul timpano e una sul rullante. We Will Rock You. Purtroppo si va davvero a chiudere, e mi escono i pensieri ad alta voce: «Non voglio che finisca», dico in trance a Zazzi. Battere le mani e cantare al massimo è tutto ciò che posso fare, mentre le strofe scivolano via fino all’entrata della chitarra di Brian per l’assolo finale, che come sempre precede We Are The Champions. La canzone più famosa dei Queen (la canzone più famosa del rock, presumo) è il coronamento trionfale dell’indimenticabile notte: l’immagine che mi viene in mente è la chiusura di un cerchio perfetto. Le mie braccia (le braccia di tutti) alzate e ondeggianti, la mia voce (la voce di tutti) spiegata oltre i propri limiti, i miei occhi (gli occhi di tutti) bagnati perché vedono mr. Brian May e mr. Roger Taylor, i due amici, Bri’n’Rog, dopo quarant’anni, ancora lì, su un palco, a suonare assieme.
Le note dell’inno britannico God Save The Queen nella versione epica e glam dei Queen riempiono l’aria: i miei idoli e gli altri musicisti si inchinano abbracciati, salutano a ripetizione, poi lasciano definitivamente il palco. Il concerto della mia vita è appena finito.
Dopo i grandi concerti si è sempre un po’ sospesi. La realtà esterna è vagamente attutita, come se un cuscino gigante rendesse la nostra percezione del mondo più morbida e omogenea. Immaginate come posso sentirmi io dopo un concerto del genere: chi stava in prima fila sotto al palco ha avuto Brian e Roger alle proprie spalle per almeno un’ora, mentre noi, piazzati sotto il b-stage, li abbiamo visti sempre di fronte, e spesso vicinissimi. Intanto ci stiamo incanalando nel flusso diretto verso le uscite; riaccendo meccanicamente il telefono. Al bar bevo mezzo litro d’acqua in mezzo secondo, e puntuale arriva la chiamata di mia cugina, che mi chiede un resoconto. Mi sento farfugliare qualcosa, provo a descriverle come sono andate le cose e come le ho vissute io. Intanto siamo all’esterno, nel piazzale, e stiamo cercando di districarci tra le bancarelle e la marea umana. L’entrata sul bus navetta che ci deve riportare verso la metropolitana è tragicomica, siamo come sardine in scatola. Contatto Andrea, che mi ospiterà a casa sua, poi Zazzi e io scendiamo in metro, ma sto facendo tutto in automatico, col corpo. Dopo un tratto insieme e qualche altra allucinata chiacchiera queeniana, ci dobbiamo separare. L’abbraccio è per forza un po’ rapido, ma c’è dentro il fremito complice della straordinaria esperienza condivisa. Grazie, caro.
Ed è così che finisce il 28 settembre 2008, il giorno più emozionante della mia vita. Mentre scrivo queste ultime righe, al muro della mia camera è gia appesa una cornice con l’ingrandimento della fotografia scattata durante l’assolo di Fat Bottomed Girls. Brian e la sua Red Special… Forever.