Lou Reed – Live @ Palabanca, Piacenza, 28/02/2006
«Standing on a corner / Suitcase in my hand».
Quattro accordi che valgono da soli una carriera, subito riconosciuti dalla platea che scatta in un’ovazione.
Finisce così il concerto di Lou Reed, con quest’unica concessione al suo passato e al suo pubblico: una Sweet Jane fatta per far cantare (finalmente) tutto il Palabanca di Piacenza, fatta come se fosse un atto dovuto da un Lou Reed mediamente sorridente, ma non troppo convinto di tutto questo entusiasmo per un unico pezzo che in fondo ha rappresentato solo un attimo della sua carriera.
Chi si aspettava Walk On The Wild Side si rassegni. Perfect Day? Neanche a parlarne. Chi crede ancora in Vicious, Heroin o qualche altro classico suo o dei Velvet Underground si eviti il dispiacere e stia a casa.
Lou Reed non è più il rock’n’roll animal degli anni ’70 e non gli frega neanche un cazzo di esserlo.
Chi viene si aspetti invece un’ora abbondante di rock’n’roll Lou Reed style: chitarre raffinate ma ancora taglienti, i soliti quattro sporchi accordi che ci propina da quarant’anni, e il suo talking inconfondibile e interminabile.
Questo ha offerto martedì 28 febbraio e questo offrirà nelle restanti date del suo tour italiano.
Unica concessione al rock (inteso come stile), un improbabile paio di pantaloni di pelle nera e una maglietta attillata che mostra impietosa tutti i suoi sessantaquattro anni.
Si presenta così, alle 21:00, puntualissimo; non saluta, imbraccia la sua Telecaster e inizia a suonare. Non si rivolgerà al pubblico per tutto il concerto, se non alla fine, per pronunciare un misero «Grazie». Lou Reed style. Ma va bene così.
Un concerto asciutto, senza troppi fronzoli, Lou Reed non cerca l’applauso facile e allora scava nel suo repertorio più oscuro per trovare i brani della serata, che solo i fan più integralisti riconoscono alla prima nota.
Con lui una band solida e duttile allo stesso tempo, pronta ad assecondare il frontman, che spesso e volentieri esce dai binari della forma canzone e si lancia in divagazioni strumentali che finiscono nel noise e nel jazz.
A ricordarci che Lou Reed è anche sinonimo di Velvet Underground ci pensa il bassista Fernando Saunders, che occasionalmente violenta il suo contrabbasso elettrico quasi come John Cale faceva con la viola.
Dopo poco più di un’ora è tutto finito e Lou Reed se ne va; nel Palabanca illuminato si vedono molte facce contente e altrettante incazzose, anche questo è Lou Reed, che suona quello che gli pare e se ne frega delle richieste del pubblico.
Io ho visto un gran bel concerto, lo scontento lo lascio ai figli deformi di MTV che se non hanno la loro brava hit da cantare tutti insieme non sono contenti e hanno bisogno di Silvestrin che li rassicuri.
Io ho visto un pezzo di storia del rock, ancora capace di emozionare dal palco, senza essere la caricatura di sé stesso (e non è così scontato…).
Paranoia Key Of E
Sword Of Damocles
The Day John Kennedy Died
Gassed & Stocked
Tell It To Your Heart
Rock Minuet
Why Do You Talk
My House
My Red Joystick
Who Am I?
Sweet Jane
P.S.: unica stortura della serata, l’apparizione del maestro di tai chi di Lou Reed, che ha zampettato sul palco mentre la band musicava i suoi movimenti. Almeno per me era abbastanza fuori luogo.