Cremona Musica

Poesia glitter in riva al Po

Lucio Corsi – Live @ Tanta Robba Festival, 07/07/2023

Comincia tutto quattro mesi esatti prima del concerto, cioè il 7 marzo, quando – nella Sala della Consulta di Palazzo Comunale – si presenta il ricco calendario di Cielo di Notte, la lunga rassegna estiva di iniziative cremonesi patrocinate dal Comune. Parlando del Tanta Robba Festival 2023 (di cui si può leggere il mio reportage generale qui su Cremonapalloza) e del suo cartellone, in fase di costruzione, Allo non si sbottona, ma, alla fine della mattinata, in privato, mi stuzzica, sussurrandomi: «Ci sarà un ospite italiano che ti piacerà molto». La mia mente visualizza all’istante il nome di Lucio Corsi, per il quale impazzisco già dai tempi del precedente disco, Cosa Faremo Da Grandi? (per me, un capolavoro), e che sono andato a vedere in concerto un paio d’anni fa con Claudia, in quel di Soliera, in provincia di Modena, all’Arti Vive Festival. Adoro il cantautore e glam rocker maremmano in modo cieco e totalizzante, come non mi capitava da un decennio buono, per quanto riguarda il panorama nazionale, ma credo di potermi riferire al mondo musicale tout court. Sono completamente in bambola per ’sto ragazzo e la sua musica, ed è con la cautela di chi non vuole veder svanire il desiderio che, quando Allo mi dice così, mi brillano gli occhi, ma taccio. E taccio per un bel pezzo. Il 21 aprile, esce il terzo lavoro di Lucio: s’intitola La Gente Che Sogna, riscuote consensi unanimi, me ne procuro al volo una copia e la passo innumerevoli volte sul giradischi. In precedenza, erano state annunciate solo poche date nelle grandi città, ma è chiaro che la tournée di supporto all’album sarà più estesa e capillare. Negli stessi giorni, Allo mi scrive: «Quel nome se vuoi te lo dico, annunceremo a maggio ma so che posso fidarmi. Sennò, se ti piace apprenderlo dai social, ok». Gli rispondo senza scrivere il nome: «Dentro di me è già reale. Diciamolo così. Non è Battisti, non è Dalla». Lui replica, adeguandosi alla modalità La Settimana Enigmistica, definendo così il cognome: «Vi si fanno strusci e shopping, specialmente nei feriali». Ci siamo. In data 9 maggio, sui canali del Tanta Robba, viene pubblicato il fatidico post.
Lucio Corsi a Cremona.
Sono oltremodo felice.

Arriva il 7 luglio. Sono in transenna, posizione centralissima. Prima che Lucio e la sua band salgano sul TR Factory Stage, accadono quattro fatti, che riporto in ordine cronologico.
Uno. Claudia mi regala la t-shirt del mio idolo. Al gazebo del merchandising ce ne sono due tipi disponibili: scelgo quella nera. Mi resta la voglia di quella bianca, in cui Lucio è fotografato in una smorfia d’altri tempi, la sigaretta in bocca e, in testa, un cappello che ricorda quelli di David Bowie e Iggy Pop del periodo berlinese. Al disotto, una scritta in grassetto esclama: I’m Back! Ed è proprio così, perché tra la conclusione del tour a fine luglio 2021 e l’essenziale promozione dei nuovi concerti, scattata a gennaio di quest’anno, è trascorso un anno e mezzo di silenzio. Silenzio vero: niente frammenti musicali pubblicati, niente pillole video di vita quotidiana casalinga buttate sui social network per mantenere la visibilità, niente ospitate televisive, niente interviste radiofoniche, niente di niente. Al punto che un fan, commentando in modo scherzoso (e sollevato) il post del gradito ritorno, interpreta il sentimento di molte persone: «Stavo iniziando a preoccuparmi… In tutta la rete non c’erano più notizie… Ecco, mi son detto, ha fatto la fine di Syd Barrett». Ripensando alla maglietta bianca che celebra la ricomparsa, be’, avrò occasione per prendere anche quella, prima o poi.
Due. Al mio fianco in prima fila non ho solo Claudia, ma arriva anche mia sorella Mary, che si presenta con adeguato anticipo e alla cui presenza tengo moltissimo, per motivi su cui tornerò alla fine del testo. Al momento, mi limito a dire che, da quando conosco Lucio Corsi, lui mi sembra – tra le altre cose – una versione maschile e glitter di mia sorella: Lucio mi ricorda Mary, Mary mi ricorda Lucio, non solo a livello di somiglianza (dal fisico longilineo ai capelli), ma per alcuni tratti della personalità. E in ogni caso è da un po’ troppo tempo che non mi godo un bel concerto importante, spalla a spalla, con Mary. Evviva! Con noi, lì davanti, ci sono Sara Signo, mamma Kidvik con il figlio Leo (12 anni e molto rock), mentre papà Yurgen è il boss dei bar del Tanta Robba ed è posizionato allo stand della birra e dei cocktail che affianca il palco. E ci sono centinaia di altre persone, certo, tante delle quali – secondo me – già consapevoli della bellezza di ciò a cui stanno per assistere.
Tre. Alle mie spalle spunta l’amico Duccio, il quale, davvero un minuto prima che i musicisti prendano i gradini a lato palco, interroga il mio orecchio destro: «Sai che nel nuovo video di Lucio Corsi c’è la mia macchina?».
«Eh‽», replico con tono scemo, mentre un punto esclarrogativo si dipinge sul mio volto. Ho visto e rivisto il poker di videoclip usciti in occasione del nuovo album, tutti diretti da Tommaso Ottomano, amico fraterno e sodale artistico di Lucio a più livelli. In quello della meravigliosa canzone Radio Mayday, che peraltro apre La Gente Che Sogna, una coppia fa heavy pettin’ – in modo dolce e spinto al tempo stesso – in un paesaggio incontaminato (fotografato in modo eccellente e identico a un video dello scorso album, Freccia Bianca). Tra l’erba verde e il cielo viola, lei e lui vanno a imboscarsi in camporella non in un veicolo qualsiasi, ma nella Volvo 240 Station Wagon Polar di Duccio. Straordinario. Cremona centro del mondo, sempre. Avendo fornito l’auto per via di un giro di contatti, Duccio è accreditato con un ringraziamento speciale nei titoli di coda. E, per questo, io lo invidio parecchio. Ah, per la sottotrama della centralità cremonese negli equilibri planetari, vi risparmio uno spin off dettagliato sul fatto che un amico di vecchia data di Tommaso è stato mio collega, a Cremona. Altrimenti non finisco più.

Quattro. Dalla transenna vedo, oltre il palco, l’area del backstage. Il tendone di plasticòon bianco non è chiuso a dovere e il mio sguardo, pur da lontano, intercetta l’interno illuminato. Vedo Lucio – scintillante nel costume da consumato glam rocker – che si scalda ballando come il Bowie di Young Americans, giuro. La visione, se ce ne fosse bisogno, mi dona altra esaltazione gratuita preconcerto. Sono carico a molla, insomma. Del resto, chi ha bazzicato la zona del palco durante il lungo soundcheck pomeridiano, tipo Ferro, mi ha già mimato una reazione inequivocabile: bocca spalancata e occhi sgranati per lo sbalordimento. «Questo ti pettina», sentenzia Ferro. Puoi dirlo forte, amigo.
Sì, adesso sul palco c’è tutta la band, anzi, labbànda, come la chiama Lucio, per fare il verso al John Belushi che ha visto la luce nella pietra miliare The Blues Brothers, film che grande importanza ha rivestito nell’imprinting di Lucio verso la musica e la voglia di diventare musicista. La formazione va citata per intero, non solo perché merita, ma perché è in gran parte composta da musicisti che suonano con Lucio dai tempi liceali: abbiamo Filippo Scandroglio alla chitarra solista; Gabriele Bernabò alla chitarra ritmica e alle tastiere; Giulio Grillo alle tastiere; Iacopo Nieri al pianoforte; Tommaso Cardelli al basso; Marco Ronconi alla batteria. A nessuno dei magnifici sette frega una mazza di fare l’entrata trionfale; nemmanco al leader, che fuma l’ultima sigaretta bene in vista, appoggiato al pianoforte, mentre i tecnici approntano le rifiniture alla backline. Noi da sotto già incitiamo, applaudiamo, lo chiamiamo per nome: lui si diverte, risponde con ampi gesti di saluto, ride. Non ha bisogno di fare la star, perché è una star.

Il look, come già accennato, è da urlo: il volto imbiancato, il trucco sugli occhi, il rossetto, la striminzita giacchetta gialla con i lustrini e le spalle esagerate, l’immancabile maglia a rete che già si vedeva nel precedente tour, i pantaloni neri attillati e infilati in due stivali alti, anch’essi scuri. Tutto concorre a descrivere e definire la sua presenza, aliena e glamour. E con glamour intendo quella scintilla eterna che è il contrario della mutevole moda: per fare un altro esempio estetico, in un Tanta Robba Festival strapieno di visual lampeggianti, di invasivi loghi in movimento e di continue distrazioni su schermo, lo staff di Lucio fornisce – come sfondo digitale per il palco – il suo volto senza nome, fisso, contrastato fino al puro bianco e nero, ornato dalle colate laviche giallorosse di trucco che sgorgano dagli occhi. Lo stesso volto che, secondo me, è un omaggio alle gigantografie degli eroi del glam rock celebrati con nostalgia nel filmone Velvet Goldmine durante le scene del concerto Death of Glitter. Lo stesso volto che ricorre sulla maglietta nera che ho già messo in salvo e che relega il nome dell’artista al retro, sulla schiena, come fanno le copertine dei suoi dischi, prive di scritte – nel solco degli anni Settanta, miglior decennio della storia dell’universo – e del tutto occupate dalle poetiche illustrazioni di Nicoletta Rabiti, madre di Lucio. Che classe. Che stile. Che glamour, per l’appunto.

È arduo, quando si è del tutto addentro una data esperienza, restituire a parole l’intensità dell’emozione: l’inizio del concerto di un artista così amato rientra nella categoria. Due anni fa, a Soliera, Lucio mi aveva steso eseguendo per prime le sue quattro canzoni che preferivo in quel momento, una dopo l’altra, in una dolcissima e chirurgica combinazione di colpi da knock out; allo stesso modo, le battute d’apertura del live cremonese sono da antologia. Il riff di Freccia Bianca squarcia la notte in riva al Po con lame di rilucente glam rock: sono già partito con il capotreno Corsi sulla sua locomotiva che attraversa lo stivale. La Bocca Della Verità, uno dei nuovi singoli, una figata che metterei a metà strada tra il glitter rock e Alberto Fortis, dimostra subito l’attenzione e la serietà che il nostro uomo mette nel mestiere: su disco, la seconda strofa della canzone squilla in lingua giapponese dalla viva voce della cantante Hiroko Hacci. E dal vivo? Be’, Lucio ci regala al suo posto una strofa con versi inediti, che in parte traducono in italiano quelli originali e in parte no: «E se a mentire fosse la realtà / E la Gioconda non provasse niente / I semafori della città / Si son truccati gli occhi di rosso giallo e verde». Il finalone del pezzo è il primo dei tanti momenti di pura evasione strumentale del concerto, tra boogie, hard rock e (quasi) soul.

Segue la stupenda Amico Vola Via, che già da anni, nei live, è guidata da un riff ben diverso da quello che è stato inciso su album. La tendenza di Lucio alla variatio è solo uno dei centomila fattori che lo rendono imperdibile dal vivo. Sopravvivo al brano senza commuovermi oltremisura: impresa non facile, tra l’introduzione, che descrive il passaggio – spiega lui – «Da un gesto di violenza a un gesto di pace» (spazzare via dalla strada le foglie cadute significa cancellare l’autunno), e la canzone vera e propria, forse il brano del repertorio corsiano che più in assoluto mi sembra pagare dazio al gigantesco Ivan Graziani, il suo cantautore del cuore assieme a Paolo Conte. Quando Lucio canta «Guarda che se ti concentri arrivi alla luna», e poi ripete il verso quasi uguale, ma accelerandone la conclusione come se la stesse rincorrendo, mi fa venire una pelle d’oca da record. Ottimo, penso. Se non ho pianto qui, non piango più. Un’altra voce si allarma, inascoltata: Stolto, aspetta a dirlo! La successiva tripletta di pezzi nuovi mi trita. Danza Classica è una ballatona glitter che gronda di una romanticheria decadente da 10 e lode. Dopodiché, è pura poesia: La Gente Che Sogna, che dà il titolo al nuovo album e ha un testo spaziale, suona tipo gli Sparks che si autoinvitano sul palco di Venditti (il pianista Iacopo Nieri veste un’attillata t-shirt di quest’ultimo). Ma non sono preparato alla versione dal vivo di Un Altro Mondo, gemma onirica che il nuovo album lo chiude, e che – posta in scaletta in posizione prematura – mi trafigge senza darmi il tempo di pararmi. «Che esista un altro mondo / Io non ne dubito / Basta credere agli occhi / Credere agli occhi / Anche quando si chiudono». E qui sì, che le lacrime del testo si mischiano alle mie. Fuck! Tutto sommato, che problema c’è?

Se ho parlato in questi termini di quanto visto e ascoltato finora, chissà che cosa dovrei inventarmi per raccontare l’emozione di Trieste, introdotta da Lucio come fosse la «parte folk del concerto». Non saprei dire quante volte ho ascoltato Trieste e ne ho visto il video, in cui uno splendente e nobiliare Lucio, di bianco vestito, accarezza un pianoforte bianco in uno spazio bianco e vola sopra lo strumento come Elton John. Un’emozione, dicevo, che attraversa la mia spina dorsale come il vento fa tra le case triestine nella commovente e trasognata canzone, scandita dallo strumming della sua chitarra acustica: una chitarra un po’ glam e un po’ garage, in cui un argenteo cd – fermato da due grosse strisce di nastro – chiude la cassa di risonanza. La stessa chitarra acustica disegna l’andamento ciondolante della successiva Bigbuca, che suona blues e folk e rock, com’è d’uopo per il novello Neil Young che Lucio in effetti è.
Gli arrangiamenti sono sempre curati, ricchi, fantasiosi: un tratto che ricorre spesso (e che mi manda fuori di testa) riguarda i tanti riff e assoli armonizzati per intervalli di terza. In questo, Filippo – vero Mick Ronson della band – va a nozze: la sua chitarra elettrica raddoppia la parte di Lucio e l’esito, almeno per me, è da brividi di godimento. Intanto arrivano le nuove hit, le canzoni gemelle Astronave Giradisco – ove si cita «Anche il satellite d’amore di Lou Reed» – e Radio Mayday, che il bel pubblico (cioè numeroso e, soprattutto, attento) dimostra di conoscere, cantando e partecipando. La successiva Orme è un’altra tappa da non sottovalutare nel periglioso percorso per evitare scoppi di pianto a fontana – «Certe orme sono soltanto una ferita / Che non guarisce con le onde / Ma resterà stampata sulla pelle a vita» – e segna il temporaneo abbandono del palco da parte del gruppo.

Lucio, in solitaria, introduce il talkin’ blues rimasto Senza Titolo, definendolo «un gran casino» da eseguire dal vivo, per la quantità di parole di cui si compone il testo e la rapida frequenza con cui si susseguono. La canzone, portata a termine in modo egregio con voce e chitarra acustica, non viene conclusa, ma piuttosto tranciata, in un finale repentino che coglie di sorpresa anche chi la conosce benissimo. Senza darci quasi il tempo di applaudire, Lucio sta già parlando del pezzo successivo, Francis Delacroix, incentrato su un suo amico fotografo che dev’essere una sagoma e che figura nell’elenco di nomi tra La Gente Che Sogna, in coda ai crediti del disco. Il brano è un divertente boogie rock’n’roll, che narra le peripezie di Delacroix e a un certo punto s’interrompe e basta, ché Lucio, la fine della canzone, deve ancora scriverla.

Bestiario Musicale è un gioiello di concept album, datato 2017, che Lucio dedicò agli animali della sua Maremma. La Lepre è uno dei brani che da allora vengono proposti in concerto ed è un trionfo dell’immaginazione: è bellissimo pensare a un mondo in cui la corsa allo spazio non è stata vinta né dagli Stati Uniti né dall’URSS, ma da una lepre, giunta sulla luna con un balzo, e ben prima degli americani. A questo punto, liberatosi dalla chitarra (la tracolla gli s’impiglia tra i capelli, oppure nella gigantesca spallina della giacchetta… Adorabile), Lucio estrae da non so dove un foglio spiegazzato e recita un testo che, parola sua, non è mai riuscito a mettere in musica. Poiché da qualche anno il momento poetico si ripete come consuetudine, personalmente spero che il testo – un componimento che tira verso la filastrocca à la Gianni Rodari – resti così, nudo, o che magari venga inciso proprio nella sua forma di spoken word. Il vero titolo di ’sto Testo Statue io lo conosco, ma non so se posso scriverlo, perché magari sarà Lucio a volerlo rivelare, a suo tempo. Nel dubbio, quindi, evito: basti sapere che Lucio è ossessionato dalle cose ferme, come le statue di cui il pezzo parla, oppure gli alberi (che in fondo «si muovono, ma molto meno di noi»).
Lucio si sposta al pianoforte verticale, molto glam: bianco, decorato da stelle viola e blu. Di solito è questo il frammento di concerto da cui può uscire qualsiasi cosa (già la volta scorsa avevo riconosciuto il toccante motivo di Rimmel, di De Gregori, con quei suoi accordi ascendenti). Lucio apre qui la breve sezione in tributo a Randy Newman, musicista da lui amato. Del pianista e compositore californiano ci viene offerta la celeberrima Hai Un Amico In Me, versione italiana (per la voce di Riccardo Cocciante) del brano scritto per la colonna sonora di Toy Story, pionieristico capolavoro del cinema di animazione digitale. Prima che le dita di Lucio inizino a scorrere sui tasti bianchi e neri, intuisco ciò che sta per accadere e raccomando a sorella Mary di fare attenzione. Lei, cresciuta tra innumerevoli visioni di Toy Story in videocassetta, è in visibilio: «Verso l’infinito e oltre!» è dove stiamo andando. A seguire, ascoltiamo una traduzione corsiana della canzone Short People, che diventa La Gente Bassa ed è una folle tirata a base di pregiudizi, con un ritornello che però smaschera la caustica ironia delle strofe di Newman. Ed è qui che Lucio – come un grande della canzone d’autore italiana dei decenni addietro – annuncia che lui e la band torneranno nel giro di qualche minuto con la seconda parte del concerto.
La pausa di metà spettacolo.
Roba da anni Settanta, o da musica classica, o da concerto di Morricone, o da The Wall.
Sto navigando nel brodo di giuggiole.

Di nuovo: il tendone resta un po’ aperto e, dalla mia inamovibile postazione, riesco a scorgere Lucio che si dimena per liberarsi degli attillatissimi abiti, scagliandoli via e aiutandosi sbatacchiandoli sulle panchette di legno del camerino. Le sue movenze sono sempre interessanti, o eleganti, o divertenti, o tutte e tre le cose insieme; mi godo allora il momento della vestizione con il secondo costume della serata, una tutina nera con una grande cerniera centrale bianca, che Lucio lascia slacciata (resterà poi a torso nudo, così come Filippo, con cui Lucio forma la coppia carismatica del settetto).
Al rientro, la malinconica ballata La Ragazza Trasparente precede – con tutti i musicisti sul palco – Il Lupo, l’altra canzone tratta dal Bestiario Musicale che viene portata in giro. Nelle illuminanti parole del testo, Lucio adotta uno stratagemma proprio à la Randy Newman: i primi versi riprendono la diffusa ed erronea interpretazione del modo di dire, «In bocca al lupo / Che crepi di dolore», ma quando facciamo un augurio del genere a una persona la stiamo in realtà paragonando a un lupacchiotto in bocca al lupo, cioè nel posto più sicuro in assoluto. E allora le parole finali ribaltano la prospettiva, raddrizzando il senso del tutto: «Il lupo con la bocca / Ci salva tutti quanti / Spero che viva altri cento venti / Spero che viva per mille anni». E gli arrangiamenti, che su disco sono molto raffinati e British (la voce di Lucio prende anche uno scherzoso accento anglofono), dal vivo trasformano il pezzo in un coinvolgente rock’n’roll.
Da qui in poi si accelera verso il climax, vera quintessenza di uno show come si deve. Se ho scritto «coinvolgente» della versione live della canzone di poco prima, non sbaglio nel definire travolgente Magia Nera, apice del live per quanto riguarda intensità e voglia di spaccare. Sul nuovo album, la canzone è una spettacolare alchimia di glam, boogie rock e soul sincopato: già al primo ascolto è impossibile resistere al ritornello «Magia nera / Nera / Nera / Nera vudù». Dal vivo, vorrei semplicemente che la canzone non finisse mai, come fosse l’erede di All The Young Dudes dei Mott The Hoople, o di Brown Sugar degli Stones. E a proposito di glam e di rock classico, è qui che la band infila due infuocate cover di hit dei T. Rex, cioè 20th Century Boy e Children Of The Revolution: sapevo che le cartucce in omaggio al grandioso gruppo di Marc Bolan mi avrebbero esaltato, e così è. Giustamente, tornando al repertorio originale, è il momento per Lucio di proporre la sua Glam Party, che descrive alla perfezione ciò in cui il concerto si è trasformato: «Metto lo smalto alle labbra e sulle dita il rossetto». Wow. Come un equilibrista su un filo di polvere di stelle che lo congiunge al cantautorato, il ragazzo di Vetulonia si cimenta poi con Ho Un Anno Di Più di Battisti, ma anche qui – tra i passaggi strumentali al centro del brano – si rendono riconoscibili le rullate di batteria e le staffilate di chitarra di Ladytron dei Roxy Music, che (ne sono certo) Lucio piazza lì dentro per aggiungere un altro pizzico di Velvet Goldmine alla faccenda.

Ci si avvicina alla fine del sensazionale concerto: Cosa Faremo Da Grandi? è – senza retorica, ma anche senza paura di scegliere termini altisonanti – una delle più belle e importanti canzoni italiane del nuovo secolo, e Lucio la propone con la medesima intenzione e il medesimo impegno con cui ha eseguito le altre. C’è qualcosa, in tutto ciò, che resta ineffabile, senza dubbio impossibile da mettere per iscritto. O almeno, io non sono in grado. La conclusiva e fantastica (anche in senso etimologico) Altalena Boy sembra la ceralacca con cui sigillare in busta il concetto: non a caso è un pezzo del Lucio giovanissimo, ventunenne, che magari aveva in mente che a poco meno di trent’anni si sarebbe tolto grandi soddisfazioni con la musica, o magari no, chi lo sa. «Perché nemmeno da vecchi si sa cosa faremo da grandi», per citare la canzone precedente. Fine del concerto. Anzi, no, ci mancherebbe. Il bis. Che – non suonerà come una sorpresa – è un vero bis, con brani già eseguiti, perché Lucio Corsi onora la musica sempre e comunque. E quindi rifà La Bocca Della Verità e Freccia Bianca, facendo calare il sipario all’inverso sulle note delle stesse canzoni che avevano aperto lo show. Im-pec-ca-bi-le.
Mentre labbànda si prende i meritati e scroscianti applausi, sono rintronato, ma Delmo (offro da bere) mi lancia una proposta da cogliere al volo: «Sei della stampa, prepara tre domande da fargli». Mentre farfuglio un verso di assenso, senza sapere bene come, in trance totale, sono catapultato nel backstage e mi sono pure portato Claudia e Mary. Non faccio in tempo a fare i complimenti a un paio della band che loro si stanno complimentando con me, perché mi hanno visto là davanti a cantare tutti i pezzi. Riesco però a dire ai ragazzi che ciò che stanno facendo, per i miei gusti, è la perfezione: la formazione numerosa, gli arrangiamenti, il concerto abbondante, la pausa, tutto. Quando mi trovo davanti Lucio, che è già in relax con la sigaretta tra le dita, comincio dalla cosa fondamentale che volevo fare da anni: gli presento mia sorella e gli rivelo che lui e lei condividono la data di nascita, il 15 ottobre del 1993. Lui è colto di sorpresa. Si ride.

Con la glaciale professionalità e il distacco imperturbabile che mi contraddistinguono, mentre nella testa rimetto insieme ’ste tre domande che devo porgli, approfitto di ogni secondo per un’agognata foto insieme e per farmi dedicare il foglio stropicciato con il Testo Statue. «Per Carmine con grande piacere», scrive. Poi firma e, più sotto, disegna una testa di leone. Provvederò a incorniciare.

Dopodiché riesco addirittura a produrre tre domande quasi decenti in lingua italiana: non metto nulla tra virgolette perché non ho preso appunti sulle parole esatte delle risposte, ma in sostanza Lucio mi dice che è contento di come il tour sta andando – e d’altra parte, stando non solo a ciò che si vede online, ma anche a testimonianze dirette, le date sembrano un susseguirsi di posti pieni e pubblico strafelice – e della soddisfazione di suonare assieme ai suoi amici. E poi di come gli piaccia concepire un album come fosse un piccolo mondo in cui si fanno convivere le canzoni tra loro, al di là dei legami talvolta evidenti (accade tra Radio Mayday e Astronave Giradisco, giusto per fare l’esempio più eclatante nel nuovo disco). Va clamorosamente bene così: ci si saluta con un abbraccio.

Almeno un’ora dopo, mentre sto lasciando l’area del Tanta Robba Festival, m’imbatto in Lucio che – nella canonica maglietta gialla di Trash dei Roxy Music che indossa appena può – si sta intrattenendo con qualche fan. Mi viene spontaneo salutarlo ancora; lui, nel replicare, indica la spilla dei Queen che ho appuntato sul gilet e mi dà un cenno di approvazione e complicità. Mio caro, ho già detto che ti adoro, ma così si esagera!
Me ne vado sulla proverbiale nuvoletta, non sapendo se riuscirò a chiudere occhio dopo una notte del genere.
Per fortuna, non solo le ferite, ma anche le cose meravigliose, possono restare stampate sulla pelle a vita.

Riguardo l' autore

McA

Si registra sul Forum di Cremonapalloza in data 01/02/03 senza farlo apposta e senza sapere che quel momento costituirà davvero un nuovo «Via!» della sua vita.
Nel 2006 è tra i fondatori dell’Associazione Cremonapalloza, di cui ricopre da sempre il ruolo di Segretario.
Ama il cinema, il rock e la Cultura in generale.

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