Roger Waters – Live @ Piazza Napoleone, Lucca, 12/07/2006
Alle 06:30, dopo tre ore di sonno (dalla forza riposante pari a quella di un battito di ciglia, o forse anche meno), mi alzo. Comincia presto, il giorno di Roger Waters. Corpo che automaticamente beve un caffè, va in bagno, si infila due cose a caso ed è pronto. La mente è deputata solo a non dimenticare di ficcare dentro a un sacchetto di plastica La Divisa, cioè la polo nera con stampato sul petto, a destra, il logo dei martelli incrociati di The Wall. Il Prof. Anteguerra e io ce ne siamo fatte fare due uguali l’anno scorso, e questa è l’occasione per la quale ne è valsa la pena.
In stazione dei treni arrivano prima Eleonora e Stefano, vestiti di nero, in segno di lutto per Syd Barrett. Ele si è anche scritta sul braccio Syd R.I.P. In Our Souls: la cugina e Stefano si apprestano a infilare la doppietta grandiosa, come me. Siamo tre reduci dal concerto dei leggendari The Rolling Stones della sera prima a Milano, e nei nostri occhi si scorgono ancora le fiammate che hanno illuminato a giorno San Siro. La cugina, per giunta, ha dormito il tempo inutile di un’ora e mezza, facendo tardissimo la notte e svegliandosi prestissimo al mattino. A diciassette anni il fisico aiuta, comunque massimo rispetto. Intanto arriva il Prof. Anteguerra. Abbraccio per darsi la carica, e poi via tutti e quattro sul treno.
Quattro ore di chiacchiere dopo, siamo a Lucca. Ci separiamo, Ele e Ste vanno a sincerarsi subito della posizione di Piazza Napoleone, dove si terrà il concerto; io porto il Prof. Anteguerra per le viuzze di questa splendida città toscana: per accedere al centro storico si valica la cinta muraria medievale, interamente conservata. Visto che è ora di pranzo, ne approfittiamo per andare a mangiare nella stessa trattoria dove ero stato un paio di mesi prima con la donna. Pasta al ragù ipercalorica (visto che non c’è ancora abbastanza caldo…); butto un occhio alla televisione, mentre passa un servizio sul concerto degli Stones della sera prima. Yeah.
Nel pomeriggio ce la prendiamo abbastanza comoda. Dopo aver sgamato Piazza Napoleone, ci cambiamo in un bar, indossando le polo con i martelli. Reincrociamo Ele e Ste in un negozio di dischi della piazza. In vetrina quasi solo dischi dei Pink Floyd, di Waters solista, di Barrett solista. Dentro gira a ripetizione The Dark Side Of The Moon, l’album del momento, anche trentatré anni dopo: questo tour di Waters è infatti particolarmente significativo, perché viene eseguito per intero dal vivo il capolavoro floydiano del ’73. La locandina ufficiale del tour di Waters trasuda modestia.
Roger Waters
The creative genius of Pink Floyd
Performing
The Dark Side Of The Moon
Poco dopo essere usciti dal negozio, diluvio. Piove con il sole su Piazza Napoleone.
Ci si accalca davanti ai cancelli.
L’attesa è lunga, lenta, calda e appiccicosa, ma quando, poco dopo le sette, quelli della sicurezza ci aprono, corriamo come dei forsennati per accaparrarci i posti migliori. E ci riusciamo: siamo davanti al palco, in terza o quarta fila. Vicinissimi.
La seconda attesa è, per certi versi, peggiore della prima: si può stare seduti per terra, è vero, ma dal punto di vista psicologico veniamo trattati come bestie: vengono mandati a ripetizione il jingle di uno degli sponsor e, soprattutto, uno squallido pezzo di pop italiano appartenente a una cantante che si sarebbe esibita in Piazza Napoleone da lì a pochi giorni. Siamo costretti a sorbirci questa dannazione per – credo – una ventina di volte. Le ultime repliche sono sommerse da boati di insofferenza e rassegnazione. La canzone non la cito volutamente, per non rovinare il reportage. Poi, quantomeno, si passa al recente disco di Paul Anka, Rock Swings. Gradevole.
La musica sfuma, si abbassano le luci.
Sul maxischermo in fondo al palco, campeggia l’enorme immagine di un aeroplano giocattolo con un soldatino posizionato come se stesse per salirci.
Luci, entra la band, entra lui. Roger Waters è lì, a pochi metri da noi. L’apertura è il massimo: In The Flesh. Al primo accordo, inizio a piangere come un disperato. Intanto, le braccia sono già alte sopra la testa, i polsi incrociati, i pugni chiusi. Il movimento di piegare e distendere le braccia con violenza e a tempo è un simbolo di annichilimento, un retaggio di The Wall. Come me, il Prof. Anteguerra e tanti altri. Siamo la massa amorfa del pubblico che venera il bassista, cantante, dittatore. Ma Roger non è più il disturbato, dispotico tiranno di venticinque anni fa. La mezza età, abbondantemente superata, l’ha profondamente trasformato. I lineamenti del viso e gli occhi sono quelli di un bel signore di 62 anni, in pace con sé stesso e col mondo; la carica sul palco e l’interazione con il pubblico sono quelle di un vecchio leone del rock, ancora nel pieno delle forze. Al primo verso cantato della canzone, piango ancora di più e mi sgolo per cantare. Quando il pezzo è finito, mi è già chiaro che sto vivendo l’emozione musicale più grande della mia vita (e una delle più grandi della mia vita in assoluto).
E mancano ancora due ore di concerto.
Sempre dal capolavoro dei Pink Floyd del 1979, arriva Mother: meno power della precedente, più intimistica e acustica. Gli effetti su di me sono però analoghi. Lacrime. Cantiamo veramente in tanti. Siamo in dodicimila a stipare Piazza Napoleone. Roger è accompagnato da una band eccezionale, nella quale si distinguono alla chitarra Snowy White (turnista storico e addirittura controfigura con maschera di lattice di David Gilmour nei concerti del 1980) e all’Hammond Harry Waters, il figlio di Roger, un trentenne dall’aspetto freak, con dreadlocks raccolti e barba lunghissima. Non gradisco molto il chitarrista solista e cantante, Dave Kilminster, che per tutto il concerto riprodurrà didatticamente tutte le parti di Gilmour, assoli compresi (e fedeli agli originali), ma strozzando le note e facendo percepire poca “anima” nell’esecuzione.
Il primo omaggio alla memoria di Syd Barrett è l’inaspettata Set The Controls For The Heart Of The Sun, angoscioso brano psichedelico del 1968, anno in cui il Diamante Pazzo si allontanò (o fu allontanato) dal gruppo. Inutile dire che anche qui l’emozione è incontenibile, soprattutto perché il primo a commuoversi è Roger. Sul maxischermo scorrono immagini dei giovani Pink Floyd.
Poi, gran parte dell’album Wish You Were Here: per prima arriva Shine On You Crazy Diamond, il momento di massima commozione collettiva. Roger canta perfettamente, da vero professionista, ma tra un verso e l’altro gira la testa e il volto si deforma in una smorfia di dolore. Penso io a piangere anche per lui, tanto. La lunga suite viene eseguita quasi interamente, con fedeltà impeccabile.
A seguire, Have A Cigar, e per la prima volta riesco nell’impresa titanica di non versare fiumi di acqua salata dagli occhi. Qui canto e basta. E Roger canta sempre: quando non tocca a lui la voce microfonata, si sposta da un lato all’altro dell’imponente palco, venendo a prendere gli applausi del pubblico e cantando a voce spiegata per il puro piacere di farlo. Si percepisce chiaramente che è contento di essere ancora on stage: dopo tanti anni, il divertimento è immutato (anzi, forse Roger si diverte più adesso che in passato).
La Wish You Were Here più significativa della storia, come l’ha definita il Prof. Anteguerra, viene cantata dal primo all’ultimo verso da tutta la platea. La nostalgia di Syd, la voglia di averlo con noi, non è solo cosa di questi ultimi giorni. Se il corpo del sessantenne Roger Keith Barrett è morto venerdì 7 luglio 2006, per complicazioni dovute al diabete, l’anima di Syd Barrett era già morta da tantissimi anni, di depressione e abuso di droghe. Questo è l’estremo saluto di un amico e di tanti fan all’immenso Syd.
Southampton Dock e The Fletcher Memorial Home sono i brani proposti da The Final Cut, l’album della disgregazione definitiva dei Floyd, l’album di Waters all’apice della tirannia, l’album composto da lui e solo lui, e semplicemente performed by Pink Floyd, l’album della resa dei conti finale con le ossessioni dell’ego, del padre morto in guerra, dell’isolamento dal mondo esterno. Durante le canzoni, sul maxischermo scorre un suggestivo video. Rimangono in mente soprattutto le immagini di una casa diroccata e disabitata, sulle cui pareti sono attaccate vecchie, rovinate fotografie di dittatori del passato (Hitler, Stalin…) e di oggi (Bush, Saddam…), condannati allo stesso calderone, poiché accomunati dalle loro politiche, fondate sulla violenza, sulla prevaricazione e sulla morte.
È poi il momento di Perfect Sense, dall’album solista di Waters Amused To Death, del 1992. Entrambe le parti del brano vengono eseguite, mentre sul maxischermo del palco e sui due schermi laterali si dissolvono immagini di missioni spaziali e il pupazzo gonfiabile di un astronauta fluttua a qualche metro d’altezza, sopra lo schermo di sinistra.
Un’altra canzone solista, inedita su disco (è uscita come singolo), è la lunghissima e splendida Leaving Beirut. Waters racconta di averla composta circa tre anni fa, quando il Regno Unito ha deciso di fare il cagnolino degli Stati Uniti, appoggiando le guerre assurde in Afghanistan e Iraq. Il brano è autobiografico e narra di un Roger giovanissimo (credo diciassettenne), sperduto nella capitale libanese Beirut, senza mezzi per tornare a casa (l’automobile l’ha tradito) e ospite di una famiglia poverissima, che però non esita a privarsi del poco cibo e del misero giaciglio per offrirli a Waters. La spiegazione è chiara, perché l’inglese di Roger è molto scandito; inoltre, per il brano è stato realizzato un “video a fumetti”, nel quale i dialoghi che accompagnano le vignette corrispondono al testo della canzone. Canto a squarciagola i versi «Oh George! Oh George! / That Texas education must have fucked you up when you were very small». Tra l’altro, noi – che eravamo in giro quasi senza sosta da due giorni – non sapevamo nulla dell’attacco pomeridiano di Israele proprio su Beirut, a causa del quale la canzone ha assunto caratteri ancora più circostanziati e attuali.
La prima parte del concerto si chiude con Sheep, dall’album Animals. Roger si ammazza per arrivarci con la voce, e ce la fa. Io mi ammazzo per arrivarci con la voce, ma non ce la faccio. Lui stesso annuncia che, dopo dieci minuti di pausa, il gruppo tornerà sul palco per l’esecuzione di The Dark Side Of The Moon.
Con un ospite speciale.
Al rientro sul palco, Roger introduce lo special guest: Nick Mason, il batterista dei Pink Floyd! Accolto da un’ovazione, Mason abbraccia Waters e va a prendere posto a un’altra batteria: il batterista “titolare” rimane però sul palco, e i due suoneranno in sincrono l’intera seconda parte del concerto.
Che dire? Il disco è riprodotto con una fedeltà impressionante. I tempi, i suoni, le entrate degli strumenti, i cori, gli assoli, tutto è come in originale. I loop, le urla e le risate di Speak To Me dissolvono nell’eterea Breathe. Mentre canto, sento i brividi. On The Run è un altro brano basato quasi interamente sul loop, mentre Nick Mason accompagna con qualche piatto. Poi è il momento di Time, durante la quale Roger è libero di muoversi, cantare con noi, arrivare fino al limite del palco, incitarci. The Great Gig In The Sky è sensazionale: una delle tre coriste si prende la scena rifacendo alla perfezione tutto il lungo e difficile assolo vocale, terminato il quale, esausta, riceve l’applauso appassionato della platea e di Roger stesso. Money consente addirittura un lieve accenno di ballo tra il pubblico. L’atmosfera è splendida. Tutti cantano anche la malinconica Us And Them e, anche in questo caso, l’assolo di sassofono è uguale identico a quello del disco. L’ultimo intermezzo (con le tastiere in evidenza) è Any Colour You Like, poi il gran finale: Brain Damage, di cui alcune parti possono essere interpretate come richiami a Syd Barrett (sarebbe lui la persona con cui ritrovarsi sul lato oscuro della luna), ed Eclipse, che io, come il Prof. Anteguerra, come tanti altri, cantiamo come se fosse l’ultima volta che ci è concesso di cantare nella vita. «And everything under the sun is in tune / But the sun is eclipsed by the moon». Uno sguardo verso il cielo, gli occhi eclissati dalle lacrime: c’è la luna piena.
Potrebbe, dovrebbe essere abbastanza, e invece non è finita. Ritorna The Wall. La band suona The Happiest Days Of Our Lives, che sul disco precede Another Brick In The Wall Part 2, che infatti arriva puntuale. C’è da dare tutto ancora una volta, e nessuno si tira indietro: «We don’t need no education», cantano dodicimila persone, assieme a Roger.
La seconda sessione, e questa volta è davvero la fine del concerto, è ancora più bella ed emozionante. Vera e Bring The Boys Back Home ci preparano gradualmente a quello che forse è davvero il più grande pezzo dei Pink Floyd dell’era Waters: Comfortably Numb. Commosso al massimo, anche perché so che il concerto sta per finire, canto non solo tutta la canzone, ma anche entrambi gli assoli di chitarra. Quello sul finale è lunghissimo, tanto che i due chitarristi si danno il cambio in corsa. Tra le fiammate che nascono dai lati del palco e illuminano la notte lucchese, Roger, Nick e gli altri si abbracciano, si inchinano, ci salutano ed escono, sostenuti da uno degli applausi più sentiti a cui mi sia mai capitato di partecipare.
Il post concerto comincia nel momento in cui mi giro indietro e vedo la cugina, che intanto (assieme a Ste) era scivolata giusto un paio di metri dietro me e il Prof. Anteguerra. Abbraccione (ormai di rito, come quello del giorno prima nel parcheggio vicino a San Siro), lei – forse ancora più coinvolta di me – soccombe a un’altra violenta reazione nervosa e piange. Ci rimettiamo in sesto sedendoci per qualche minuto lì per terra, in piazza, nella stessa posizione da cui abbiamo assistito all’incredibile concerto.
Becchiamo anche Angelica, una ragazza di Cremona, che ci promette fotografie e video realizzati da posizione favorevolissima da Nino del Kavarna, lì per lavoro (montaggio del palco). Poi, giretto a vedere le magliette. Il Prof. Anteguerra ne compra una niente male. Poi, pizza. Andiamo con calma, ché tanto il treno di ritorno è alle cinque del mattino. Si dorme (male) per circa tre ore sulla cinta muraria di Lucca. Quando dico «sulla cinta muraria» intendo dire esattamente ciò che ho scritto. Credo sia il posto più suggestivo in cui mi sia mai capitato di dormire. Poi, trasferimento in stazione per un altro riposino e, finalmente, il treno. Il ritorno è un calvario: alle cinque del mattino il vagone ha l’aria condizionata a mille, non si riesce a dormire per il freddo. Invece, quando via via sopraggiunge il caldo della mattinata, cambiamo altri due treni, ovviamente non climatizzati. Il mondo alla rovescia.
A Cremona ci siamo alle dieci e mezza circa, Claudia è venuta a prenderci a sorpresa in stazione. Lasciamo Ele e Ste con altri abbracci, portiamo il Prof. Anteguerra a casa, poi la donna mi riaccompagna. Insomma, alla fine vado a letto alle undici e mezza del mattino e mi sveglio alle otto e mezza di sera. È il 13 luglio, un giorno passato a dormire (a Lucca, in treno, a casa) per riprendermi dalla mia due giorni rock’n’roll, la più emozionante della mia vita.