Chi non ha ancora visto La febbre al Cinema Padus cambi canale, perché per raccontare cosa succede in questi giorni nella mia testa, ossia quali associazioni di idee e quali considerazioni io stia macinando sull’utilità pratica del “confidar nell’altrui influenza”, beh, dovrò rovinargli il film e soprattutto il finale.
Ci sono percorsi, certe volte, traiettorie, che risultano essere talmente parallele da farti pensare all’ineluttabile precognizione di certe coincidenze. Tipo che hai voglia di un libro diverso e hai voglia di un venerdì sera diverso, e ti capita prima di essere travolto da Rai Tre che ti piazza un bel Paolini in prima serata (una sola volta purtroppo) che ti consiglia di leggere Il sergente nella neve di Rigoni Stern e poi ti capita di andare la sera dopo a un concerto degli ex CSI, al Fillmore e Giovanni Lindo Ferretti, che trasuda follia, ti parla per due ore di partigiani e della presa di Alba e poi di Pavese e Fenoglio e di scritti corsari. Il giorno dopo compri quel libro ed è una cosa bella.
«Ma che c’entra Ferretti? Meoow…», mi domanda il gatto Fulvia mettendosi in posizione seduta da sfinge. Ferretti tornerà dopo. «E che c’entra La febbre, miao?», aggiunge. C’entra, c’entra. Perché nella settimana in cui il Cinema Tognazzi, contenitore per eccellenza dei “film di cassetta”, toglie alla Pupina e a me la possibilità di godere di tre visioni di cineforum aggiunte alla programmazione originaria, con la misteriosa giustificazione della “cattiva qualità delle pellicole giunte da Bologna”, quella stessa settimana io vado a vedere La febbre, film di Alessandro D’Alatri con Fabio Volo e Valeria Solarino, evento mondano e iperatteso qui nel borgo, al Cinema Padus.
Capita pure che la settimana in questione sia una sorta di “settimana della promozione cinematografica”, con la convenientissima occasione di andare a veder un film e ottenere il biglietto scontato a 1.50 € per un secondo film futuro. Niente male, come trovata. Capita però che in cassa, dopo una coda per la verità breve e tranquilla, la solerte signorina delle caramelle e dei biglietti ci informi che «loro» non aderiscono alla splendida iniziativa. Vai un po’ te a capire perché. Bah, misteri del Padus. Eh, però il film sei lì per vederlo, cosa fai, vai a casa? E allora via dentro, con la Pupina e la coppia Bomber & Bè, che non vengono al cinema dall’85. «Guarda», stupisce il Bomber, «è ancora tutto uguale!». «Beh, ma Bomber», chiedo, «da quand’è che non vieni?». Lui ci pensa su, si gira verso la Bè. «Era Rocky II?», le chiede. «Ghostbusters!», fa lei. «Ssssst!», si sente dietro, e lui si gira e allarga le braccia col sorrisone, come dire Son Bomber, gioco a fùbal, mica ho tempo per venire al cinematografo. Inizia il film. E ce lo guardiamo per benino, questo evento atteso da tutta la città. Ed effettivamente non ci dispiace, anzi, è divertente. Fabio Volo è abbastanza credibile, abbastanza bravo anche, un po’ troppo dimesso forse, un po’ troppo come se la vita lo avesse preso a sberle fin da piccolo, ma credibile. Valeria Solarino non ha una parte troppo complessa, già un passo avanti però rispetto al terrificante Che ne sarà di noi, in cui la cosa migliore era l’isola greca. Sia in quello che in questo film, però, la sua presenza è circondata da un’aura di splendore, lei è davvero solare e come passa sullo schermo ti incolla gli occhi. Foà è sempre una garanzia, fa la chioccia per i giovani. Gli amici del protagonista non c’entrano niente, milanesoni trapiantati in campagna per girare delle scene, e il figlio di Jannacci non dà alcun valore aggiunto. Il dirigente del Comune che vessa il protagonista ha la faccia del signor Burns de I Simpson ed è una macchietta, che rispecchia però alcune reali situazioni con le quali spesso in un ente pubblico si viene a confronto. Cremona sembra Bologna. Piazza del Duomo viene ripresa troppe volte, il resto è una pioggia di porticati che fa pensare più alla Dotta che al nostro borgo. Ci sono un paio di scene in dialetto autoctono che fan davvero collassare dal ridere, per chi ama ridere grasso, e noi siam collassati. La regia è la regia di D’Alatri, pubblicitaria. Credo stia migliorando lui, ma alcune soluzioni del film sembrano troppo surreali per la vicenda, mai abbastanza trasognata per potersele permettere. Una scena brutta che lancia un messaggio sbagliato, quella dell’ubriacatura dalla quale il protagonista si riprende con in testa un’idea nuova e più concreta per la sua esistenza. Una scena impossibile, quella di lui & lei coricati sereni d’estate in un campo, di notte, a ragionar di loro, situazione impensabile senza un barile di Autan! Ma l’insieme è godibile e i messaggi di fondo interessanti, anche se non originali. Resta un dubbio alla fine: possibile che uno che ha delle ansie di fuga e vuole seguire i propri sogni e la città gli viene stretta, il massimo che riesce a fare è ristrutturare una cascina a 7 km da Cremona? Possibile sì, dato che alla fine gli ritorna Valeria Solarino dall’America, più bella di prima.
«Miao!», scuote i baffi il Fulvia. «Ma tutto questo bel discorso perché?», e si capotta sulle mie ciabatte. «Tutto questo bel discorso», gli spiego muovendo le dita, così gli gratto il pancino peloso, «per dire che a volte questi sogni di questi personaggi uguali a noi son troppo piccoli. Che dal cinema io m’aspetto di più». Il Fulvia non pare convinto, fa le fusa ma con un occhio giallo mi guarda in tralice. «…Meeeeeeeow… Fff… Fff… E D’Alatri che c’entra?». Ecco. Partiamo da D’Alatri. Che quando l’anno scorso la troupe girava in città io c’ero, satellitare a loro, ad aiutarli a cercare una location sul Po e un cortile per una scena d’interni. Tutto ciò mi ha portato a dare una copia dei miei due romanzi pubblicati al regista, nella speranza che li leggesse prima di finire il film, per dimostrargli che mi stava rubando delle idee già messe su carta. «A te ha rubato?», stupisce il gattone. «Alessandro D’Alatri? Mao…». Lo blocco, non sono così vanesio. «Non proprio “rubato”, mi sono espresso male. Diciamo che ha sviscerato le stesse tematiche. E poi rispetto alle mie trame il protagonista di Alessandro ha un sogno. I miei no». Il gatto mi si alza seduto, serio. Si stiracchia il pelo della nuca. «E tu perché glieli hai dati? Prrr…». Scrollo le spalle, inconsapevole. «Mah», faccio mesto, «speri sempre che serva ad avvicinarti a un meccanismo commerciale che ti possa aprire nuove strade. Tipo la sceneggiatura televisiva o cinematografica».
Il Fulvia ci pensa su. «Mao, non è una brutta idea, il vip dello spettacolo», e sorride. «Non funziona», commento affranto, «ci ho già provato diverse volte». «E con chi? Mao…». Ci rifletto e conto con le dita. «Dunque, vediamo…», attacco, «a parte D’Alatri… Con Vinicio Capossela, Sandro Veronesi, Giuseppe Culicchia, Carlo Lucarelli, Luigi Bernardi, Ligabue, Beppe Carletti dei Nomadi, Drigo dei Negrita, Bengi dei Ridillo, Marco Cocci, Morgan e Andy dei Bluvertigo, Luigi Lo Cascio, Fabio Volo a CàVolo, Red Ronnie, Aldo Busi, Omar Pedrini dei Timoria, Beppe Severgnini, Nanni Svampa e Giovanni Lindo Ferretti».
«Per le trippe! Meowww… Non pochi davvero. Ed ecco che ritorna Ferretti, ora mi spieghi che c’entrava». Mi sfioro una guancia, là dove il Giovanni Lindo mi ha tirato una sberla che voleva essere un buffetto di cortesia, completamente folle lui, completamente distante. «Io leggo solo autori morti e sepolti», mi ha detto quella sera dopo il concerto, «non darmi materiale tuo». «Beh», gli ho risposto toccandomi, «un bel giorno sarò morto anch’io, credo». Ma lui ha detto no. «Devi trovare la tua strada, non affidarti a noi. La fama nostra è effimera e inutile, ciò che cerchi è dentro di te», e mi ha sorriso. Poi mi ha picchiato.
«Maaao…», ride il Fulvia. «Ha fatto bene».
Non lo so, è che mi sembra esista uno strano spirito di emulazione che non riesco a sfruttare, c’è una sovrapposizione di immagini e di idee, ma a me viene consigliato, dal più fuori di tutti, di starmene fuori dai giochi. «Miao… Fff…», soffia il Fulvia, «di che sovrapposizioni stai parlando?». Ci rifletto calmo. «Per esempio… Hai notato», chiedo sospettoso, «che lo scrittore Coelho è identico esteticamente a Giorgio Faletti e che entrambi sono identici esteticamente a Peter Gabriel?».
Il gatto sbuffa, mi lascia da solo in salotto e se ne va per tetti. «È verooo!», gli urlo dalla finestra. «Torna qua, sfacciato che non sei altro!».
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