Jello Biafra And The Guantanamo School Of Medicine + Strobo Monsters – Live @ Festa di Radio Onda d’Urto, Brescia, 27/08/2009
Sveglio, dopo sette ore dal ritorno notturno, mi metto a scrivere righe antidogmatiche su ciò che mi porta ad aggiungere un accrescitivo maschile al sostantivo femminile “serata”. La serata di giovedì 27 agosto alla Festa di Radio Onda d’Urto 2009 (esisterà un’edizione 2010? Riusciremo a difendere la festa dagli attacchi dell’amministrazione bresciana?) è per me diventata un “seratone” in concomitanza di vari fattori.
La leggenda del punk Jello Biafra, storico cantante leader mente frontman dei californiani Dead Kennedys, ha formato un nuovo gruppo, dal nuovamente caustico e provocatorio nome di Jello Biafra And The Guantanamo School Of Medicine. Da trent’anni convinto attivista anarchico, dopo l’esperienza dei Dead Kennedys (1978-1986), Biafra ha collaborato con gruppi storici della scena alternativa americana (un nome su tutti, i Melvins) e ha poi sperimentato anche la forma del cd parlato, prima di assemblare questa formazione, che vede Ralph Spight e Kimo Ball alle chitarre, Andrew Weiss al basso e il fratello Jon Weiss alla batteria.
Sono le dieci passate, e sul palco principale hanno da poco finito di suonare i torinesi Panico. Jello è da solo, nell’ombra del più remoto angolino del backstage. Saltella, scioglie le braccia e le dita e borbotta qualcosa fra sé e sé, per caricarsi, per fare il matto quando salirà sul palco. Come faccio a saperlo? Semplice, lo sto salutando stringendogli la mano (con ovvio contorno di «Oh my god!», sorrisone ebete e «Nice to meet you» che mi escono automatici). Perché, come al solito, mi trovo nel backstage? Semplice, sono il fan da esportazione ufficiale degli Strobo Monsters, i pionieri del discopunk cremonese. Vengo incluso nella spedizione con quei microscopici compiti di roadie che legittimano il mio sobrio, bianco pass plastificato con il logo del gatto nero di Radio Onda d’Urto. Nel retropalco sono in compagnia di Monster N.1, che suonerà coi fidati (cercate di ricordare i nomi) Monster N.2, Monster N.3 e Monster N.4 presso la Tenda Blu, al termine dell’esibizione del buon Jello. Prima di cena, gli Strobo Monsters rilasciano ai ragazzi della radio una divertente intervista, che prontamente filmo, nella quale Monster N.1 spiega perché il loro discopunk privo di contenuti incarna la decadenza della civiltà occidentale. Alla fine l’intervistatore, in diretta radiofonica, cercando di convogliare in extremis ulteriore pubblico presso la festa, avverte gli ascoltatori che Jello Biafra e i suoi «proporranno anche pezzi dei Dead Kennedys». Questo non solo mi suona inaspettato: è musica per le mie orecchie! Come mi ricorda Deejay Dave, l’altro cremonese impegnato in serata (il suo set è sotto la Tenda dei Migranti), è vero che gli altri componenti dei Dead Kennedys hanno vinto la causa sul nome del gruppo, proseguendo con reunion varie e un trascurabile cantante/imitatore; ma è anche vero che Jello ha tutti i diritti sulle canzoni che ha scritto. Strano comunque, per me: mentalmente avevo escluso in modo categorico la possibilità che Biafra ci “concedesse” vecchi classici, com’è uso fra gli attempati rock’n’roller. E invece, per fortuna.
In giro per la festa incontriamo Dado, pronto a immortalare tutto quanto con la telecamera.
È l’ora della verità. Non faccio tempo a sgusciare nella zona tra transenna e palco, che il pastore Jello sta già riunendo le sue pecorelle: sceso in mezzo al pubblico, invita tutti a invadere la transenna. In molti seguono volentieri il consiglio, quindi lo spazio potenzialmente comodo e libero si farcisce di punkaglia (già sudata prima di cominciare) e ultraquarantenni con la maglietta della Alternative Tentacles (l’etichetta fondata da Biafra nel 1979). Mi dico: Stavolta faccio la persona seria. Sto a lato del pogo e non mi ci immischio. Sono troppo vecchio per queste stronzate. Parte il concerto ed è già bordello: i Punk Perfetti®, scivolosi come salamandre e sbriciolati dall’alcool, si spintonano e fanno spettacolo a sé. Sul palco, il cinquantunenne Jello! Camicia sbottonata a pois, panza rotonda contenuta a fatica da una maglietta importante (I support Iraq Veterans Against the War. Andate su www.ivaw.org), alla cintura sempre la stessa fibbia di metallo con la stella cerchiata, un po’ stile combat, un po’ stile mandriano.
I nuovi pezzi spaccano. Più che agli assalti a velocità sfrenata dell’ultimo periodo deadkennedysiano, assomigliano ai brani degli esordi: punk’n’roll midtempo, parecchie influenze surf, garage e noise. Un paio di titoli: Electronic Plantation e New Feudalism (contro la globalizzazione, definita più volte da Jello «dittatura delle corporation»). Quando sale il basso minaccioso della storica California Über Alles gli animi si scaldano ulteriormente e non posso non immergermi nel lerciume del pogo per cantare in faccia a Jello, che poi si getta nella bolgia. Dal vivo, gli occhi spiritati di Biafra sono magnetici come me li immaginavo, o come li intuivo dai vecchi video recuperati su YouTube. E sono straordinarie anche le frequenti e fulminee rappresentazioni teatrali mimate, che Jello mette in scena nei momenti in cui non canta e che esplicano i contenuti delle canzoni. Di volta in volta ci troviamo dinnanzi a un impiegato alienato davanti al computer, a un tronfio riccastro che ci appesta con il fumo del suo sigaro e con l’arroganza delle sue parole, a un gerarca nazista che fatica a trattenere il saluto romano (come Il dottor Stranamore), a uno scienziato pazzo responsabile dell’olocausto nucleare, a un borghese moralista che è poi il primo segaiolo pervertito, a uno schizzato in preda al terrore in lui indotto da chi lo vuole schizzato e terrorizzato. Mi ridesto dall’ipnosi in cui Biafra mi ha intrappolato, giusto per accorgermi che la band ha i cosiddetti controcazzi e suona ottimamente. Avanti con le danze: una punkettina con tanga rosso in bella vista mi vola sopra la testa, ma nessuno – con grande merito – approfitta del suo stage diving per palparle il generoso culo né le tutt’altro che piccole tette (questa è una conquista di civiltà).
La seconda gemma stagionata della setlist è lo spettacolare surf punk di Let’s Lynch The Landlord: si poga felici come un unico corpo. «Linciamo il padrone!»: un appello certamente condivisibile, come quelli contro la politica del macho Schwarzenegger (governatore della California), di Bush e Berlusconi, ma anche come l’invito a riflettere su quanto l’avvento dell’era Obama possa realmente migliorare la situazione mondiale. In sostanza, dice Jello, finché i signori della guerra Cheney, Rumsfeld ecc. non saranno in carcere per i crimini commessi durante l’amministrazione Bush, la sua fiducia nel nuovo corso sarà sempre scarsissima. D’altronde, da una vita, Biafra parla di cambiamenti fatti dal basso, con l’azione diretta, non tramite chissà quale intervento messianico calato dall’alto. Purtroppo, comprendere appieno i discorsi di Jello non è agevole: il suo inglese, per quanto lui scandisca le parole, è colorito e complesso; dal canto mio, cerco di prestare la massima attenzione, ma il crestato biondonero al mio fianco poga anche quando il gruppo non suona. Costui ha il logo dei Crass (fondamentali punk anarchici inglesi) tatuato sulla spalla, si trova a un concerto ricco di contenuti profondi… Ma non si applica, non ascolta. Devo concludere che è qui solo per il pogo, e la cosa mi delude alquanto.
Il pezzo più hardcore nel senso tradizionale del termine è Three Strikes, preceduto da una lunga introduzione sull’omonima legge repressiva, che manda in carcere la gente per i profitti delle multinazionali, che gestiscono le prigioni stesse. Altre canzoni, basate su riff e ritmo sincopato, ricordano il garage più grezzo, roba tipo The Stooges. In ordine sparso: Clean As A Thistle, Strength Through Shopping, Dot Com Monte Carlo, The Cells That Will Not Die, Pets Eat Their Master, Panic Land (occasione per salutare i Panico). Lo scatenato Jello ci delizia con un breve excursus tragicomico su Brescia: alla stazione dei treni, le gabbiette attorno agli alberi e i divieti di sedersi per terra gli hanno dato un’impressione di paranoia securitaria. «Welcome to Brescia, spend your money and go away!», scherza (ma neanche tanto) Biafra. Tra il finale e il doppio bis, il punk rocker di San Francisco si lancia in un altro crowd surfing, questa volta a torso nudo (che manzo!), e ci regala ancora due pezzi degli anni d’oro: Police Truck e soprattutto Holiday In Cambodia. Niente Too Drunk To Fuck per gli adepti del culto del luppolo, niente Kill The Poor per gli appassionati del sarcasmo al vetriolo (sono tra questi), niente battutacce sulla morte di Ted Kennedy, scomparso il giorno prima. In realtà un paio di punk con gusti più macabri degli altri provano a intonare qualche coretto di esultanza in morte dell’ultimo Kennedy della politica, ma poco importa. Il concerto è stato fantastico, e questa non è un’opzione: «It’s not an option», come ripetiamo in coro, arrivando quasi a sussurrarlo, davanti a Jello, nel finale dell’ultimissimo brano, I Won’t Give Up. E non arrendiamoci neanche noi.
Mi fiondo verso i camerini con Stella, Strobo Moglie, che – con la grazia stivalata che le compete – si districa tra pozze di fango e sballoni ubriachi, ed è a caccia di un autografo sulla locandina del concerto. Dopo pochi minuti, mister Eric Boucher (questo il vero nome di Biafra) esce per accontentare i fedelissimi. Un paio di ragazzini gli fanno firmare tutta la discografia dei Dead Kennedys, che Jello autografa dopo aver controllato che le edizioni dei dischi siano Alternative Tentacles e non riedizioni dei suoi ex compagni d’avventura, amaramente liquidati con un breve commento. Giunto il mio turno, riesco a strappargli non solo la firma sul pass (la A finale del suo nome è cerchiata. Lo amo), ma anche una fotografia, che dei gentilissimi sconosciuti ci scattano al volo. Congedandomi da Biafra, gli dico: «Great music, and most brilliant lyrics ever!». Lui mi risponde qualcosa come: «I try my best, but the most brilliant lyrics ever are by Wesley Willis!». Wesley Willis era un caro amico di Jello Biafra, musicista e artista di Chicago, diagnosticato schizofrenico, morto di leucemia nel 2003, a soli quarant’anni. Immenso Jello, anche per questo ricordo.
Raggiungiamo la Tenda Blu, e con perfetto tempismo attaccano gli Strobo Monsters. Cinquanta minuti che definirei chirurgici: quattordici pezzi di truzzopunk bullo di periferia, tirato, senza pause. Agli ormai classici Starchy Forelocks e Dis Is Love si affiancano i nuovi pezzi We Are All In It For The Free Drinks, Heads Full Of Pink Air e la orrorifica Pic Nic In The Cemetery. Monster N.1, in passamontagna sbrilluccicoso, tiene il palco alla grande, combatte per conservarsi la voce (che alla lunga, per sua stessa ammissione, tende ad andargli via), scaglia il microfono e verso la fine salta giù da un rialzo bello alto a lato palco. Yeah!
Durante il successivo dj set a cassa dritta di Monster N.2, sono almeno due i momenti da menzionare: i bei visual (soprattutto l’harakiri di un ufficiale militare in un vecchio film orientale e il folle volo suicida a cavallo della bomba atomica nel finale di Il dottor Stranamore, che ricorre per la seconda volta in serata) e il genio che smette di ballare, sale sul palco e, con la musica a tutto volume, pretende che i danzanti lo sentano urlare, mani attorno alla bocca a mo’ di megafono: «Mantenuti! Siete tutti dei mantenuti!» (l’ho sentito a malapena io, che ero lì a fianco). Poi torna pacifico nel dancefloor alle tre di notte tra giovedì e venerdì, come tutti quegli altri sfaccendati. Lo interpreto come un superbo gesto di autocritica, oppure come il delirio di un folle, o meglio le due cose insieme.
Perché questo è stato un seratone, spero di avervelo fatto assaporare almeno un po’. Chiudo, mentre Fresh Fruit For Rotting Vegetables gira nel mio stereo, in attesa di The Audacity Of Hype, il nuovo disco di Jello e soci, che uscirà a ottobre e che comprerò senz’altro. La mefistofelica copertina, curiosamente realizzata dallo stesso artista che ha creato l’originale “santino” di Obama, e il titolo dell’album, che alla Hope, tormentone globale degli ultimi mesi, sostituisce l’Hype, cioè la fiduciosa aspettativa che tanta parte del mondo ha riversato sul neopresidente statunitense (ed è ovvio che per Biafra questa aspettativa sia stata fin qui delusa), dicono già molto.