Violent Line – Live @ C.S.A. Dordoni, 18/06/2005
Serata dai molteplici volti, quella di sabato 18 giugno al C.S.A. Dordoni: doppio birthday party per Eugenio e Maresca (festeggianti, per l’esattezza, il 21 giugno lui, il 5 luglio lei. Dio, quanto sono fottutamente professionale); doppio concerto, con gli Uà (originale formazione ska/reggae) a far da spalla agli headliner Violent Line, gruppo di rock’n’roll lussurioso formato da gente geniale di Musicologia e Liuteria; primo esperimento del 2005 (almeno per quanto mi riguarda) di che cosa significa “caldo”, quello vero, quello di cui fai in tempo a dimenticarti durante l’inverno, quello con tre “a” («Ragazzi, che caaaldo…»).
Non ho cenato, ma c’è la paella gratis. Bella lì.
C’è anche la sangria gratis. Bella lì once more.
Naturalmente la temperatura corporea si alza ulteriormente con la paella e soprattutto con l’immancabile cavalcata epic metal a fubalino, dove peraltro i mezzani come me non hanno quasi più voce in capitolo, troppo deboli per reggere l’esperienza dei decani, né l’irruenza delle nuove leve con le magliette di I Hate Her dei Cripple Bastards. Quindi, ancora prima che comincino a suonare gli Uà, il clima è già bello hot. Sto grondando (la drammatica testimonianza di Ugge: nel pomeriggio il sole era talmente benevolo che il metallo di cui è fatto il portone della sala concerti si era dilatato, e lui – voto 10 – è andato a raffreddarlo con la canna dell’acqua). Insomma, capito, no? Fa un caldo bestia.
Uà on stage. Il quartetto è veramente particolare, da sinistra a destra abbiamo una bassista con i dreadlocks e un’attitudine un sacco reggae (vederla ondeggiare mentre suona è rilassante); un violinista (!) concentrato; un cantante/chitarrista (chitarra acustica); una tastierista/cantante. Niente batterista. C’è spazio per una – mi pare – piccola palma gonfiabile qui, un fiore là. Il mood è conciliante. I pezzi eseguiti sono farina del loro sacco. Bella lì.
Un po’ di pausa, poi, assieme all’uomo assennato nonché rocker di razza Gio Vox, mi avvicino al palco (leggi: prima fila. Dio, quanto sono fottutamente maniaco).
I Violent Line (Manos, voce, chitarra, style; Peppe, chitarra, cori, attitude; Pasquale, basso, basette; Edo, batteria, riccioli) attaccano con Vicious di Lou Reed e il pubblico comincia a scaldarsi. Seguono I Wanna Be Your Dog (The Stooges) e The Jean Genie di David Bowie, e fin qui la tracklist sembra ricalcare quella di sei mesi esatti prima all’Arci, il 18 dicembre 2004. Da qui in poi, però, ci sono un sacco di sorprese che esulano dal genere garage/glam di fine anni ’60/inizio anni ’70 (a parte i pezzi dei successivi The Cult) che aveva dominato la scorsa esibizione.
Infatti (cito in ordine sparso) vengono aggiunti brani dei mitici The Cure (la fantastica Boys Don’t Cry, per l’esecuzione della quale sale sul palco a cantare Robert, un amico di Peppe, dark non plus ultra, con la maglietta dei Bauhaus, insomma un figo), dei leggendari The Clash (London Calling), un pezzo dei meno noti The Sound (introdotti da Manos come «gruppo forse non molto conosciuto»… E infatti non li conoscevo), Patti Smith, con un risultato che amplia il periodo musicale coperto (da fine ’60 ai pieni ’80) e, molto semplicemente, con un grappolo di pezzi uno più bello dell’altro (tra i brani già presenti nello scorso concerto, anche Rebel Rebel di Bowie, che è una delle mie preferite).
Al momento dell’introduzione dell’ultimo brano della serata, Peppe dice qualcosa tipo: «Anche questo è un pezzo degli Stooges, siamo intorno al 1970», e io lo precedo gridandogli: «T.V. Eye!», al che lui non può che additarmi dicendomi «Bravo!» e qualcuno accenna un applauso al mio indirizzo. Ringrazio il/la coraggioso/a.
Ecco, se io non avessi una mentalità da fan, sarebbe tutto. Invece devo citare la fase intermedia in cui, tra l’inizio del concerto in giacchetta e la fine a torso nudo, Peppe (che, immagino sia chiaro, è il mio idolo) ha suonato con addosso una stratosferica canottiera nera semitrasparente – nel perfetto stile di Lou Reed del periodo glam – che ne ha accresciuto la già altissima fuckin’ attitude, data da fattori fondamentali quali l’autoironia, i pantaloni aderentissimi di pelle nera, i movimenti febbrili sul palco e il fatto di aver suonato almeno due canzoni con la consapevolezza di avere la chitarra scordata.
E questa è realmente la fine.
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