Premio Internazionale di Pittura, Scultura e Arte Elettronica “Guglielmo Marconi”, 2005
Nuntio vobis gaudium magnum! Amici, a quanto pare abbiamo l’onore di avere tra di noi un grande artista e magari non ce n’eravamo mai accorti, magari abbiamo sempre sottovalutato le sue reali possibilità, con i nostri provinciali giudizi da zoticoni prevenuti…
Be’, il libriccino in questione è una specie di catalogo (realizzato grazie al contributo del negozio Cose di Cremona, che non so quanto vi interessi, ma secondo me qualcosa vuol dire…) del XIX Premio Internazionale “Guglielmo Marconi”, assegnato per la sezione Arte Elettronica al nostro concittadino Filippo Centenari, il Keanu Reeves della Bassa Padana.
Vi assicuro che si tratta di una cosa in grande stile, ideata addirittura da Giulio Carlo Argan (una specie di mostro sacro della critica d’arte del nostro Paese) alla fine degli anni Ottanta, un premio importante di cui in passato sono stati insigniti personaggi come Bruno Munari, Giò Pomodoro, Gillo Dorfles, Pietro Cascella (che magari così non vi dicono assolutamente nulla, ma vi assicuro che per l’arte italiana degli ultimi cinquant’anni sono nomi da pelle d’oca).
Sfogliando il catalogo del nostro artista troviamo le riproduzioni di vari aspetti della sua opera: dalle videoinstallazioni giocate su una contrapposizione inquietante tra l’uomo e l’avanzare delle sue tecnologie (lo scrive la signora Marisa Vescovo, il cui nome a quanto pare appare in tutti i siti in cui si parla del nostro artista, nella prefazione, perché sinceramente non so se l’avrei capito: un’installazione va vista di persona, la foto non rende), a un video girato a New York, Million Of Colors, in cui parti dello skyline gelido e alienante della metropoli vengono accese a intermittenza di tinte turbolente, come quelle dei giocattoli di plastica, provocando alla visione un’ibridazione spaesante tra realtà e artificio (perlomeno questo è il riassunto della spiega complicatissima della signora Vescovo, perché anche in questo caso dalla foto… Boh?); seguono poi altre opere di pittura elettronica in cui Centenari recupera citazioni fotografiche dal passato (le tipiche foto di modelle svestite tipo odalische di fine Ottocento) e dona loro nuova vita colorandole di tinte sgargianti con il computer, e ancora opere di impostazione più classica, stampe su tela e tecniche mista su carta di Amalfi (che chic!) che consistono in transfer a solvente (in pratica, provate a fare una fotocopia, appoggiatela su un foglio e passate sul dorso bianco un batuffolo imbevuto di acquaragia e la magia è fatta!) con interventi astratti a pastello e resina.
La cosa che più mi rammarica è che non ci sia nemmeno un microintervento scritto dell’artista che spieghi, motivi le sue opere, giustifichi le sue scelte, dia una motivazione dell’estetica un po’ latente… A una come me, che Cente lo conosce solo di sfuggita (però sa chi è, e soprattutto sa che è nato nello stesso buco di città e frequenta i suoi stessi posti, e non è poco) non possono bastare certo i paroloni ragionati della signora Vescovo, le profonde esposizioni di filosofia del colore e metafisica dell’opera del signor Cerritelli (altro insigne critico che collabora alla prefazione) e che scrive cose del tipo: «La disseminazione dei microsolchi è la metafora oggettiva che contrasta con l’immaterialità della luce, la messa in scena della trasmutazione percettiva è in funzione delle immagini via monitor ma nulla è sottratto all’idea che materia ha già in sé, come complessità di codici resi espliciti nell’assetto permutativo dell’ambientazione».
Eh‽
Potete dunque immaginare la mia reazione, da formichina incazzata con il business, che con la mia laureetta in Belle Arti mi sa che ci posso fare gli aeroplanini di carta (una contraerea kamikaze di formichine incazzate con il business).
Per carità, nessuna invettiva contro il nostro concittadino artista, anzi, il ragazzo pare intraprendente, ha viaggiato (beato lui!) e soprattutto sembra crederci davvero… E io godo per tutti coloro che hanno la faccia tosta di mettersi in gioco e fregare il sistema di disquisizioni cervellotiche che attanaglia l’arte, ma col sorriso… Io son troppo idealista e conservatrice, troppo onesta con me stessa per poterlo fare… Sì, perché ragazzi, ve lo giuro, il mondo dell’arte fa schifo, come tutti gli altri mondi.
Scordatevi l’immagine romantica della bottega rinascimentale, di modelli in posa illuminati dalle candele e profumi di oli e polveri colorate, dimenticatevi delle soffitte parigine di Montmartre dove, stregati dalla fame e dall’assenzio, si affaccendavano i Picasso e i Modigliani, tutti presi da una spinta interiore più forte della loro volontà, una specie di vocazione che non si cura della fama e del successo, ma si preoccupa solo di dare sfogo a un istinto superiore… E scordatevi anche degli anni Sessanta e Settanta, delle performance ai limiti della tollerabilità umana, degli artisti che utilizzavano il loro stesso corpo per comunicare, per trasmettere pensieri forti, ideologie.
Oggi le gallerie, magari non proprio tutte ma la maggior parte sì, sono luoghi d’élite, banche iperselettive di talenti che il più delle volte vengono spinti e gonfiati più del dovuto da critici-talent scout tutti impettiti e incravattati, che sperano di fare l’affare della vita inventandosi dissertazioni intellettuali incomprensibili all’utente medio. Più una questione di interessi (per non dire di soldini, che sta male!) che di ideologie profonde, più una ricerca dell’accattivante formato marketing che della bellezza, più una provocazione forzata per destare curiosità morbose che una necessità di comunicare al mondo il proprio pensiero. Vi basti sapere a proposito che il grande mecenate degli artisti inglesi contemporanei (Young British Artists, che vengono definiti YBA, tipo marchio di fabbrica che fa mooolto moderno!) è un certo signor Charles Saatchi, magnate iperplurimiliardario della pubblicità. E addio romanticismo!
Con questo non voglio certo dire che l’arte sia solo quella del passato, quella bellissima e inarrivabile, per quanto io sia una di quelli fermamente convinti che l’estetica sia una delle cose primarie da inserire in un’opera d’arte. Anche un’installazione, un video, devono perlomeno essere belli da vedere, curati per la vista.
Il brutto deve essere giustificato da un’esigenza profonda. Per farla breve, i ritratti cubisti di Picasso, con gli occhi storti e i profili mischiati che non si capisce da che parte sono girati sono tutto fuorché belli, non ci sono dubbi su questo. Ma Picasso arrivò a quello attraverso studi e fatiche, cercando la sintesi delle cose, lui che a dodici anni sapeva dipingere la realtà con perfezione impressionante.
E lo stesso vale per tanti altri esempi del passato più recente, che a uno sguardo sommario possono sembrare assurdi, ma in realtà nascondono fatiche e ricerche e spiritualità. Apprezzo molto più il quadro che di solito tutti guardano con sospetto in casa della nostra amica Rebe (una grossa tela tutta dipinta di marrone scuro, con al centro una linea nera, spessa, fluida, che si proietta guizzante verso l’alto) che un collage malfatto di elementi disparati messo insieme con il classico titolone a effetto, quello che spiazza e che ti fa sentire un perfetto imbecille perché non riesci a dargli un senso.
Lo sappiamo bene noi che consacriamo la nostra esistenza alle cause perse e ci buttiamo tutte ferventi di entusiasmo in un’avventura così romantica come quella delle Accademie di Belle Arti, e ci facciamo un culo quadro per imparare (da sole, perché all’Accademia non se lo sognano nemmeno di insegnartelo) le tecniche e per studiare contemplanti tutte le cose belle che sono state fatte, e che godiamo delle sottigliezze del mondo stupendoci e che poi finiamo così quando ci accorgiamo che tutti i nostri sforzi erano perfettamente inutili, che bastava essere un po’ furbe e che spesso già si nasce con la camicia cucita addosso, altre volte la fortuna arriva e basta. E bisogna prenderla così come viene…