Luppolo in Rock, 12-17/07/2022
Parlare – in questo caso, scrivere – a giochi fatti è facile, ma nel periodo precedente all’edizione 2022 di Luppolo in Rock percepisco che il festival estivo della musica dura a Cremona ambisce a diventare grande e mi metto nelle condizioni di frequentarlo il più possibile. Sono presente alla manifestazione dal primo giorno in assoluto – 13 luglio 2018: l’ospite internazionale era Reece, preceduto dal grande cantante Giacomo Voli, dagli storici cremonesi Suicide Solution e dal grunge degli Overdose – e, rispetto al passato, trovo una promozione potenziata, oltre al valore intrinseco del cartellone: alcune delle band annunciate sono pazzesche e, insomma, l’organizzazione generale dà impressione di solidità. Le promesse della vigilia saranno mantenute ben oltre le più rosee aspettative. Si comincia dunque con tre giorni di Anteprima, a ingresso libero, ognuno dei quali vede susseguirsi sull’imponente palco quattro gruppi italiani.
Martedì 12 luglio
Fabio e io abbiamo ancora negli occhi le fiamme sprigionate dal palco dei leggendari Kiss, che abbiamo visto la sera prima all’Arena di Verona, quando ci troviamo nel pomeriggio al Parco delle ex Colonie Padane per concludere con Alessandro l’allestimento dell’esposizione La nostra musica urla ancora, una raccolta di materiali grafici – manifesti, locandine, volantini, programmi e non solo – di iniziative del Gruppo Janggos, che, tra anni Ottanta e Novanta, organizzò in città importanti festival come Porta Mosa e Cremona Rock. Luppolo in Rock è una delle realtà partner della mostra ed è naturale che il nostro gruppo informale di lavoro, completato da Giuseppe e aiutato da Grego, la porti anche lì.
Fa un caldo tremendo ed è quindi il momento di una birretta. Il Regno del Luppolo propone una selezione bavarese di notevole varietà, ma io vado a istinto: sotto il grande gazebo esagonale posto al centro dell’area ristoro, Basso mi descrive la Festbier, la birra del giullare. Si tratta – e cito, visto che sono una zappa terribile in materia – di una «non filtrata, corposa, dal gusto deciso», che gode di «grande equilibrio tra forza e bevibilità» e di una «piacevole persistenza sul palato della luppolatura». In virtù di ciò, promette di essere «inimitabile nel gusto». Vada per la Festbier, mi dico, attratto più dal bel colore ambrato che da altre caratteristiche. Amore al primo sorso! Nei giorni del festival proverò anche la Pils, l’ottima Weisse e diverse qualità, ma al Luppolo in Rock 2022 (soprav)vivrò quasi solo di Festbier.
Tocca citare di nuovo il sole cocente sotto il quale rosolano ogni giorno i gruppi di apertura: date per scontato che ci sia sempre una calura irreale. Ed è in tali condizioni che ai Brut Oss spetta il compito di esibirsi come prima band delle 27 (!) complessive del festival. La formazione strettamente padana, nel senso che i suoi componenti arrivano da entrambe le sponde del fiume, porta sul palco uno stoner che ben si sposa con la temperatura desertica. A me il genere piace, ma più ancora mi piace l’idea che, alla luce del programma completo di Luppolo in Rock, ci sia modo di spaziare tra stili e sonorità. Bene così, tanto più che, a seguire, i bolognesi Saints Trade sono invece ancorati alla vecchia scuola hard’n’heavy: la vocalità del cantante ricorda un po’ quella di Rob Halford, la band è rodata da oltre un decennio di attività e da precedenti esperienze.
Mentre si fa buio è il momento (perfetto, visto il nome) dei locali Goldusk: il progetto è recente, ma anche in questo caso i membri provengono da quasi vent’anni sui palchi del sottobosco musicale. Il trio, con Larry Low (voce e basso), Redz (chitarra) e Magher (batteria), sta lì sul crinale tra heavy e thrash metal e le canzoni prendono ispirazione dai film cult degli anni Ottanta, tra fantascienza e horror. Con me vanno a nozze, anche per l’idea di stamparsi una maglietta spaccona e ironicamente autocelebrativa: sul davanti appare il logo della band, sulla schiena la scritta world domination tour e tre colonne di testo vuote, se non per le due date, in tutto, macinate finora. Applausi.
Conclude la serata una delle tante piacevoli sorprese del Luppolo in Rock: non conoscevo le Snei Ap, quintetto tutto femminile da cinque punti diversi dell’Emilia. L’unica cosa che non mi sconfinfera è il nome della band, ma posso passarci sopra con serenità. Si definiscono alternative rock ma, vedendole e ascoltandole, io ci ravviso proprio la voglia di spaccare e divertirsi tipica di certo hair metal anni Ottanta. Lasciando perdere le etichette, le ragazze sono capaci – mi garba in particolar modo il gioco tra le due chitarre: la ritmica di Foxy Juliet e la solista di Jude, poco più che ventenne – e sanno come si sta su un palco, dal look al modo di dare spettacolo. Angie alla voce è potente e coinvolge, Alyx al basso sostiene a dovere e Sonia Wild picchia mica da ridere alla batteria. Brave e promotrici del sesso sicuro, come testimonia il lancio dal palco di preservativi personalizzati con il titolo della canzone obSEXion. Ne afferro uno. «È un regular», sentenzia (dopo rapida occhiata) Matthew Strong, i baffi più sexy del rock’n’roll underground cremasco, spesso presente al mio fianco. Sono già contento dopo il primo giorno.
Mercoledì 13 luglio
Rosico, sul serio: motivi lavorativi mi tengono lontano dal Luppolo in Rock e perdo in toto la seconda giornata, aperta dai Forevermore (con il loro tributo ai Whitesnake) e proseguita con i milanesi Chrysarmonia, in grado di spaziare tra metal, alternative rock, blues, soul e jazz. Fabio mi racconta della voce grandiosa della cantante Vania Guarini – che si presenta sul palco con una pesante striscia di trucco nero sugli occhi, quasi da una tempia all’altra – e di un’entusiasmante versione di My Favorite Things, standard jazz di inarrivabile bellezza nella versione di John Coltrane. Di segno del tutto opposto i GunJack, fedelissimi alla tradizione rock’n’roll e speed metal devota ai Motörhead, quella che non chiede scusa e alza il volume. Giusti headliner del mercoledì sono i Mortado, un nome storico del sottobosco di casa nostra, con la loro oliata formula thrash metal senza compromessi. La seconda serata va in archivio tra i commenti positivi che mi vengono riportati.
Giovedì 14 luglio
Prima di accedere all’area concerti mi trattengo nella ricca zona dei banchetti di musica e oggettistica, come a ogni festival che si rispetti; ma sono numerosi anche i punti gastronomici e non mancano le particolarità, come le bevande storiche di Ombraluna. Anche la parte al coperto dell’immobile razionalista/futurista delle Colonie Padane è riservata agli stand dove trovare accessori tamarri da irriducibile cuore d’acciaio e spulciare tra i dischi alla ricerca di oscuri album di black metal scandinavo. Il divertimento vero inizia quando attaccano i pisani Tossic: attivi dal 1986, si destreggiano tra thrash con l’acca e trash senza. Dal punto di vista musicale sono quadrati e le canzoni suonano alla grande; su un impianto così solido, che farebbe invidia a parecchie band in circolazione, il frontman Mazza (che sfoggia una stupenda, lunghissima criniera incanutita) canta testi in italiano di volgarissima goliardia. Siano sufficienti alcuni titoli: Sudo Ma Godo (a tema), Birra (ancor più a tema), lo space thrash metal sentimentale di Cosmomanza e infine, a oltrepassare il limite, la mostruosa Cazzi Di Pane, la cui esecuzione coincide con il lancio di freschi pani di forma fallica. Davvero bravissime le (in maggioranza) donne nel pubblico nel prendere al volo ciò che parte dal palco: lo spreco di cibo sarebbe inaccettabile. Nel momento in cui scrivo, il contenuto più recente sulla pagina Facebook dei Tossic è un video accompagnato dal seguente, lapidario commento: «Luppolo in Rock sverginato 🍺🐗🤘🤘🤘». Che poeti!
Mi porto in transenna per i Rain perché mi piace il logo un po’ anni Settanta/Ottanta, che campeggia, rosso in campo nero, sul loro stendardo a fondo palco. E faccio bene, perché anche loro regalano un bel live di hard rock tendente heavy, impreziosito da una cover stravolta e accelerata di Deuce dei Kiss, sulla quale mi scateno, raccogliendo il riconoscimento del cantante crestato Evil Mala, sul palco in tuta arancione da detenuto.
La performance che segue, cioè quella dei Dark Quarterer, è per distacco la più sorprendente per perizia tecnica perlomeno della tre giorni di Anteprima: il prog metal dai toni epici del quartetto, attivo da oltre quattro decenni, lascia sbalorditi per la bravura dei musicisti e per la favolosa voce di Gianni Nepi, che per giunta, oltre a cantare, suona (da paura) il basso. Fantasmagorici, tanto da mettere in difficoltà (almeno, secondo me) i successivi – pur ottimi – Old Bridge, guidati da un’altra superba cantante come Silvia Agnoloni, che non se la fa spiegare da nessuno neanche in termini di presenza scenica e agita la rossa capigliatura leonina. Mi appunto ai jeans la spilla della band fiorentina (Old Bridge, come Ponte Vecchio, no?), pronto e carico per i tre giorni con i gruppi internazionali.
Venerdì 15 luglio
Da oggi si gioca pesante, ci sono i pezzi grossi e per accedere ai concerti si paga un (onesto) biglietto; resta a ingresso libero l’ampia area del Parco. La speranza è che, complici l’arrivo del weekend e il prestigio del bill, il pubblico risponda. Spoiler: lo farà, eccome. Ad aprire le danze pensano i mantovani Silenzio Profondo, che sotto una cappa di caldo inenarrabile riescono a coinvolgere e fare la loro figura. Lo stile parte dall’heavy metal classico e spazia qui e là, toccando il prog e lambendo il thrash, il tutto con un cantato italiano che mi pare offra testi più personali e ben scritti della media.
Già l’act successivo, nonostante il sole ancora ben alto, richiama un bel po’ di fan sotto il palco: attivi da un quindicennio, i brianzoli Furor Gallico hanno raccolto soprattutto in tempi recenti sempre maggiori consensi in ambito pagan/folk/celtic metal, comunque si vogliano chiamare le varie diramazioni del genere. A me la mescola non dice granché, ma prendo atto della capacità del gruppo e della risposta del pubblico. Prima del live percepisco qualche nervosismo da parte del batterista, senza riuscire a individuarne la ragione; poi il concerto ha inizio e tutto si sistema. La band è decisa a lasciare il segno e lo fa, anche per la bontà dei suoni targati Acid Studio: nonostante il granitico blocco di strumenti elettrici, percepiamo in modo chiaro e distinto gli strumenti acustici tradizionali ai lati del palco, quali arpa celtica, bouzouki e tin whistle. La dinamica che si crea tra voce maschile e femminile è interessante e mi diverte vedere il flautista mentre impugna il piccolo strumento come fosse una chitarra durante gli assoli altrui. Fico lui nello stare sul palco, così come fico è il bassista al suo fianco: i due formano una coppia di capelloni di nero vestiti che si sbracciano e agitano le teste all’unisono. E mi piace buttare un occhio sotto il palco e scorgere – tra le magliette nere, le chiome fluenti, i tatuaggi e i piercing – anche qualche kilt portato con naturalezza, se possibile in abbinata a un bel paio di anfibi, ché tanto, arrostire, arrostiamo comunque.
Bevo una Festbier e faccio due chiacchiere con Fabio: gli dico che il festival è una figata ma anche che mi piacerebbe che, magari in futuro, avessero spazio più gruppi di area hard rock e rock’n’roll. Il mio desiderio sarà esaudito da lì a pochi istanti: il concerto successivo resta – dal punto di vista musicale e solo rispetto ai miei gusti personali – il mio preferito di tutti i sei giorni di Luppolo in Rock. Il nome Jesper Binzer & Band può non suonare altisonante come altri che si leggono in locandina, ma il leader è il cantante dei danesi D-A-D, formazione hard rock pirotecnica, forte di quarant’anni di carriera e già protagonista della prima edizione del festival, nel 2018. Non sono certo un loro esperto e farei fatica a nominare una manciata di loro canzoni oltre a Sleeping My Day Away, e ancor meno conosco la carriera solista di Binzer, di cui però – qualche giorno prima del festival – l’amico e superfan French mi ha consigliato l’album Dying Is Easy. Ebbene, quando il sestetto sale sul palco sono attratto dalla transenna come un magnete da un frigorifero. Ciò che vedo è, all’apparenza, una band hard rock della metà degli anni Settanta: Binzer veste una camicia jeans con abbondanti frange di cuoio marrone sulle maniche, che fanno il paio con i lunghi capelli color grano e le basette lungo il volto, ingrigite, a tradire una certa età; nel resto del gruppo abbondano chiome e barbe, occhiali da sole a goccia, jeans e pelle, ciondoli e stivaletti. Alla prima nota, volo via: in sostanza, assisto a un concerto di rock classico che a tratti vira in modo deciso verso il southern rock, suonato benissimo e cantato ancor meglio. La presenza scenica e il carisma di Binzer sono allo stesso livello di rockstar planetarie ed è un bene che, per tutti questi anni, il suo progetto principale sia rimasto oggetto di culto senza mai diventare troppo famoso, nel senso che è forse per questo che Binzer ha ancora fame, ha ancora voglia di divorarsi il palco. Mentre il sole accenna a demordere e i suoi raggi si riflettono nelle lenti degli occhiali dei musicisti, resto imbambolato e capisco alla perfezione Sonia, che non è una semplice fan, ma è proprio perdutamente innamorata del rocker di Frederiksberg. La trovo in lacrime dopo il live e riusciamo a ottenere un paio di autografi di Jesper (io lo chiedo per regalarlo a French, che non è potuto esserci): alla dedica Binzer aggiunge un autoritratto stilizzato, uno smiley capellone. Spettacolare Jesper Binzer!
Al quarto giorno di festival, ho un’altra voglia da soddisfare, quella cioè di un bel gruppazzo nordico di metal estremo e malvagio. Anche in questo caso, eccomi subito accontentato: all’imbrunire, il palco è terra di dominio dei finlandesi Moonsorrow, che portano al Luppolo il loro viking metal, ennesima ramificazione e mescolanza tra black, folk ed epic metal. Mi mancava il corpse paint brutale e nei Moonsorrow abbonda: i volti cadaverici sono sporcati di terra e sangue. A sorpresa, il mio Moonsorrow preferito si rivela uno dei due chitarristi, Janne Perttilä, unico calvo in una squadra di lungocriniti: spacca per come suona, per come tiene il palco, per come fa headbanging, per come non si risparmia. Anche per come è vestito, con quella maglia nera con lo scollo a vu e un vistoso pendaglio che, unito al trucco, lo fa sembrare davvero un trapassato a miglior vita nel Medioevo. La musica dei Moonsorrow, va da sé, è un tritacarne: non mi addentro nell’esegesi dei testi, cantati esclusivamente in finlandese, ma l’ultraviolenza è evidente. Come è evidente che è tutta una clamorosa scena! Si vede lontano un miglio che i Moonsorrow – come persone – non sono malvagi per niente, anzi: non mancano di ringraziare il pubblico in modo caloroso e concedersi per le fotografie nel backstage, il che stride (e la cosa mi piace) con il tono glaciale e apocalittico dell’ora e mezza di tiratissimo concerto. A proposito, una volta per tutte: complimenti all’organizzazione, alla squadra tecnica e agli artisti – che in linea di massima avranno collaborato, suppongo – per la puntualità negli orari di inizio e fine dei concerti rispetto agli annunci. Un’acribia simile l’ho esperita qualche anno fa nei Paesi Bassi, al festival Helldorado di Eindhoven; insomma, era come trovarsi a un piccolo Wacken. Viva la precisione maniacale!
Tra gli inevitabili rimpianti che si accumulano in un’onorevole carriera di frequentatore di concerti, ho quello di non aver mai visto dal vivo Ronnie James Dio, venuto a mancare nel 2010, che i sodali di Cremonapalloza Q e Jonny videro al Gods of Metal 2007 come cantante degli Heaven & Hell. Be’, di Dio ce n’è uno solo, ma senza dubbio il suo erede più credibile sul pianeta è adesso a Cremona davanti ai nostri occhi: parlo di Jørn Lande, fantastico cantante norvegese – a completare un trittico scandinavo del venerdì al Luppolo in Rock – già voce nei Masterplan e nel progetto Avantasia, qui a guida della band chiamata soltanto Jorn e fondata nel 2000. Il quintetto che prende posizione sul palco vede tra le sue fila ben due italiani: Alessandro Del Vecchio alle tastiere e Francesco Jovino alla batteria. Mi piazzo in transenna e da lì non mi muovo più, se non per rockeggiare come Satana comanda. Giù il cappello per la formazione, compatta a dir poco, e distacco subitaneo della mandibola davanti alla voce di Jørn Lande: dal timbro al controllo, dalla potenza all’espressività, ogni nota cantata rimanda all’immenso Ronnie James, tanto che al cantante dei Rainbow e dei Black Sabbath del dopo Ozzy Osbourne sono dedicati vari momenti del concerto, dal discorso in cui Jørn incorona Dio come più grande cantante rock di tutti i tempi (ma anche Elvis non era niente male, dice) alla cover conclusiva di Rainbow In The Dark. Jørn è fan di Dio al punto che, anche quando si produce nel celeberrimo gesto delle corna, lo fa da Dio, cioè come lo faceva lui, sfoderando indice e mignolo della stessa mano con cui stringe il microfono e concedendosi ampiamente alle tante macchine fotografiche presenti davanti alla transenna, badando di guardare nell’obiettivo e di tirare in dentro le guance per esaltare gli zigomi. Totale e simpaticissimo, oltreché drago assoluto della vocalità hard’n’heavy. Laurea con lode e bacio accademico per gli Jorn, con i quali si chiude un perfetto venerdì.
Sabato 16 luglio
Quale miglior modo di festeggiare la Beata Vergine del Monte Carmelo, insomma, la Madonna del Carmine, insomma, il mio onomastico, se non andando a spaccarmi di heavy metal tutto il sabbatho? Ed eccomi allora puntuale in zona palco (provando, con scarso esito, a stare all’ombra). Ci sarà qualche band che proprio non ti è piaciuta, al festival!, insinueranno le persone più critiche tra il mio (vastissimo) pubblico di lettrici e lettori. La risposta è un no secco: quando anche gli apripista della giornata, i romani Shores Of Null, offrono un concerto del genere, significa che la programmazione del Luppolo è azzeccata al 100%. Tra lentezze doom e blast beat nordicheggiante, riuscendo a evocare atmosfere gotiche in un caldo torrido, il quintetto capitolino – a cui per un brano si è aggiunta sul palco la voce femminile di Elisabetta Marchetti – mi ha coinvolto, anzi, direi, affascinato: mi hanno colpito soprattutto il tiro e la versatilità vocale del cantante Davide Straccione. Potenti, consigliati e da recuperare in contesti freddi e notturni.
Discorso simile si potrebbe fare per i Novembre (che nome figo): arrivano dalla Città Eterna, si esibiscono sotto un sole feroce ma dipingono uno scenario oscuro e confermano le voci unanimi che li citano come act di valore assoluto nel panorama prog death metal. Diamine, fan spavento da quanto son bravi! E anche qui, ad attrarmi è la voce – più in generale, direi, l’imponente figura – del cantante Carmelo Orlando, il cui nome tradisce le origini catanesi e che dunque è sul palco a sciogliersi in lacrime di sangue nel giorno del suo onomastico, pure lui. «È impossibile», dice solo, tra un brano e un altro, per descrivere la situazione climatica, nel ringraziarci di essere lì. E se, da un lato, fisicità, volto e capelli incutono quantomeno una certa soggezione, è chiaro che Carmelo e gli altri sono contenti di esserci, contro ogni possibile difficoltà, per un pubblico fedele, caloroso e già significativo. La classica band che fa il bene della scena: il giorno dopo, l’amico Poppo mi scrive che i Novembre si sono fermati a dormire nel suo bed & breakfast. Il gruppo torna al Luppolo a godersi il day off e le leggendarie band della giornata conclusiva; avvisto Carmelo e riesco a fargli i complimenti. La supremazia novembrina s’impone nella morsa dell’afoso luglio cremonese.
Ostinazione, ecco: ciò che la galassia della musica dura – artisti, appassionati e addetti ai lavori – vanta da sempre, e può continuare a vantare, rispetto a tanti altri ambiti, è la fottuta ostinazione. Prendiamo i perugini Fleshgod Apocalypse: venerdì si trovano in Svezia, in quel di Gävle, al Gefle Metal Festival. Suonano nel tardo pomeriggio, scendono dal palco e ricevono un messaggio dall’organizzazione del Luppolo in Rock. Il senso della richiesta è di compiere un mezzo miracolo: essere sul palco a Cremona il giorno dopo. E non stiamo parlando di un duo acustico che suona in maglietta, bermuda e sandali: qui ci sono di mezzo gli spostamenti di una decina di persone a star stretti, il percorso di ritorno da riprogrammare, la band veste pesantissimi costumi di scena pirateschi, porta il trucco, ha uno stendardo enorme, una backline con i controcazzi ecc.
Dopo quello che deve per forza essere stato un brevissimo consulto, i Fleshgod Apocalypse accettano.
E meno di 24 ore dopo sono sul palco del Luppolo in Rock.
E sfasciano tutto.
E anche loro si avvalgono di un’ospitata vocale di Elisabetta Marchetti, già impegnata poco prima con gli Shores Of Null.
E corro incontro all’altra parete del wall of death mentre un’orda urlante di metallari grondanti mi arriva addosso, e poi mi riprendo dal mulinello umano del mosh pit, e poi ascolto il leader Francesco Paoli – un corsaro con il corpse paint, perdincibacco! – mentre fa appelli all’importanza del supporto reciproco nella scena e chiude dicendo che ci vuole bene, e sono attraversato dalla convinzione sempre più palpabile che tutte le band del festival e il pubblico siano cosa sola. Adesso è certo: il clima di sorellanza, fratellanza e amicizia non potrà essere in alcun modo scalfito. E infatti così sarà, fino all’ultimo.
Bramo una Festbier e me la scolo nel cambio palco. Vicino alle transenne che delimitano la zona del mixer incontro Galo, grande appassionato ed esperto di musica del demonio, oltreché abile chitarrista, e gli chiedo dei Moonspell, che – confesso ignoranza – conosco solo di nome come importante realtà dalla lunga e onorata carriera, ma che non ho mai ascoltato. Mi racconta che sono portoghesi, che sono annoverati nel grande calderone gothic metal, che li vide per la prima e unica volta da ragazzino, nel 1996, quando passarono dalle nostre parti per il tour che fece seguito al loro secondo album, Irreligious – che mi consiglia, come il successivo, Sin/Pecado – e che gli fa una certa impressione beccarli di nuovo, oltre un quarto di secolo dopo, nella propria città. Nei giorni precedenti al Luppolo in Rock, il cantante Fernando Ribeiro ha inviato un videomessaggio ai fan, dando appuntamento al sabato sera. Il mastodontico stendardo della band di Amadora viene issato a fondo palco ed è alquanto elegante: non reca il logo del gruppo né altre scritte, ma solo un suggestivo panorama notturno, dominato – come da nome – da una gigantesca luna piena.
Il concerto degli iberici è formidabile. Ribeiro, unico sempre presente nei tre decenni di vita dalla fondazione della band, possiede una voce dalla tonalità interessante, caratteristica. È lui – con evidenza – a essere il più amato e stimato da un pubblico partecipe e attento; personalmente, ammetto però di sviluppare un debole per il tastierista Pedro Paixão, che si presenta alla sua magnifica postazione – che ricorda gli organi a canne delle chiese – nascosto da un cappellaccio nero, da cui spunta la folta chioma corvina. La presenza scenica di Paixão ha anche qualcosa a che vedere con il rock classico o certo blues pesante, non solo con il metallo darkettone. Mentre suona si lancia in insistite sessioni di solenne headbanging, talvolta si sgancia dalle retrovie e si porta in proscenio per aizzare la platea o per imbracciare la chitarra: a conti fatti, è una sorta di secondo leader del gruppo. Mentre la notte cala sulle Colonie Padane, la mia parte maniaca delle coincidenze si accorge che, alla stessa maniera del giorno precedente, un gruppo con la luna nel nome ha suonato per penultimo in cartellone. Ciò che abbiamo ricevuto, però, non è il raggelante dolore nordico dei Moonsorrow, ma il misterioso sortilegio dei peccatori Moonspell. Muito obrigado.
Di nuovo: la mia voglia di vedere dal vivo i Leprous – di cui si parla come gruppo centrale del prog metal attuale – è inversamente proporzionale alla mia conoscenza del combo norvegese. Il cantante e tastierista Einar Solberg era un adolescente quando fondò la band con il chitarrista Tor Oddmund Suhrke. Un paio di decenni e vari album più tardi, la formazione di Notodden è una consolidatissima realtà. Eppure, più conservatore di quanto non mi piaccia credermi, tra un gruppo fresco, moderno e contaminato come i Leprous e l’ennesimo progetto stoner o doom annegato in un retrogusto Seventies, è spesso facile che sia quest’ultimo a catturare la mia attenzione. Madornale errore! Già da come appaiono sul palco, i musicisti scandinavi segnano un bello scarto da tutto ciò che si è visto fino a quel momento in cinque giorni di festival: abbigliamento sobrio, tagli di capelli corti (ma senza rasature cattive) e un’attitudine generale poco spaccona e molto – che cosa sto per scrivere! – indie. Appena iniziano a suonare, sono una roba da diventare matti: ultratecnici, coesi alla stregua di un’orchestra, creativi e geniali, quasi ubriacanti, nella composizione dei brani. Nella loro musica sento echi classici e lirici, sento l’alternative rock che ha a che fare con il progressive, sento la colonna sonora di un ipotetico film d’autore e sento addirittura i migliori Muse, proprio quelli dei tardi Novanta e primi Duemila. Einar ha una voce sensazionale, che spinge a manetta soprattutto nel registro alto e fino al falsetto. Per prendere fiato – o perlomeno per far riposare le corde vocali – tra una canzone e l’altra, Solberg elargisce una grande verità: parlando non da musicista, bensì da spettatore di concerti, sancisce che ai festival il vero problema non è il caldo né l’attesa né la gente. È il male alla bassa schiena. È il fatto di stare in piedi un mucchio di ore per vedere mille gruppi uno in fila all’altro. Ma ne vale la pena.
Ricorderò per un bel pezzo il finale del concerto: tirato lungo, ripetitivo e ipnotico, un giro melodico scuro, circolare e angosciante prende in pieno petto il pubblico del Luppolo. Quando i Leprous s’interrompono, all’improvviso, il mio desiderio è che vadano avanti. Inchini, applausi e pioggia di souvenir: dal palco volano plettri e polsini. Il batterista lancia una bacchetta alle prime file; quando vedo partire la seconda, so già che sarà mia. Seguo con gli occhi la parabola a campanile, alta e corta; con un piccolo balzo, agguanto al volo il trofeo. È una Vic Firth 55A da combattimento, tutta spezzata e usurata. Già felice per la giornata di festival e soddisfatto per il gesto della conquista in sé, comunico con serenità a Lori, che è lì al mio fianco, che – se vuole – la bacchetta è sua. E certo che vuole: lui è feticista peggio di me, è batterista ed è fan della band. Se la merita. Il giovane sgrana gli occhioni e sorride esultante. Bene così. E manca ancora la pazzesca domenica.
Domenica 17 luglio
Il finalone di Luppolo in Rock comincia ancor più presto degli altri giorni. Alle 15:00 sono già sotto le fresche (si fa per dire) frasche delle Colonie Padane, dove ha luogo la presentazione del primo numero della rivista Hardware, edita da Tsunami, alla presenza del coordinatore Alex Ventriglia e dell’editore Eugenio Monti. Modera il già citato Fabio, giornalista, appassionato e figura attiva della grande Family del Luppolo. Si parla del progetto editoriale, che è aperiodico ma si pone comunque l’obiettivo di uscire almeno un paio di volte all’anno, e più nello specifico dell’argomento del tomo d’esordio, dedicato alla Second Wave of Bay Area Thrash Metal, definizione scelta in modo arbitrario – dice Eugenio – sulla falsariga della ben nota New Wave of British Heavy Metal, ma che ben identifica – puntualizza Alex – ciò di cui si sta parlando, cioè le band che, poco dopo i pionieri Metallica, Megadeth, Slayer e Anthrax (i cosiddetti Big Four), contribuirono alla definizione del genere. E non uno, non due, ma tre gruppi californiani di San Francisco e della Bay Area saranno, attesissimi, gli ultimi a esibirsi in serata e in chiusura di festival. Dopo la presentazione, mi faccio firmare e dedicare la rivista: il fanatismo nerd non conosce riposo.
Tra i tanti pannelli della mostra La nostra musica urla ancora ce n’è uno, il mio preferito, che riproduce il manifesto di Porta Mosa 87: il diavolo si nasconde dietro una tenda, sulla quale appare il ricco programma della rassegna di tre decenni e mezzo or sono. Tra i gruppi si legge, come special guest, anche il nome dei bolzanini Skanners: attivi dal 1982, festeggiano i 40 anni di carriera materializzandosi fuori dalla diabolica locandina e riapparendo su un palco cremonese per aprire la giornata di Luppolo in Rock. Un cerchio metallico si chiude alla perfezione. Mea culpa, non li avevo mai visti dal vivo: resto entusiasta. Il cantante Claudio Pisoni è il Bruce Dickinson italiano: simpatico, mai domo, agitatore di folle, cantante superbo e del tutto dedito alla causa dell’acciaio italico. Claudio ha 65 anni ed è in forma smagliante, senz’altro aiutato dallo stile di vita sobrio: leggo qua e là che non beve, non fuma ed è uno sportivo. Ma sul palco sono dei manici tutti quanti, a partire dall’altro fondatore, il chitarrista Fabio Tenca. Gente davvero dura e pura. Non a caso, Hard And Pure è il titolo del brano che gli Skanners dedicano a sé stessi e a noi, senza distinzione tra chi l’heavy metal lo suona e chi lo ascolta: chi lo vive, sa di farne parte. Dopo il live, Fabio fa avere a ciascuno degli Skanners una copia del video di quel loro mitico concerto a Porta Mosa 87, uno dei tanti materiali che ci sono pervenuti per il grande archivio digitale sui decenni del rock a Cremona che stiamo provando a costruire. Alla ricezione del graditissimo omaggio, i sorrisi dicono tutto. I cori da ultras – «Skanners / Skanners» – che si sono levati dal bollente piazzale delle Colonie Padane sono largamente meritati per come la band trentina si è comportata, sopra e sotto il palco. Immensi Skanners!
Definizione: «Scalda i cuori». Cinque lettere, inizia con la M. In un cruciverba la soluzione sarebbe una, nella vita possiamo raddoppiare: metal e Milan. Dalle nostre parti, in ambito musicale pesante, abbiamo avuto il post metalcore dei Korova MilkBar: la band, mi rivelarono anni fa Maru e Taglia, non avrebbe preso in formazione nessuno che non fosse tifoso del Diavolo. Su scala nazionale, milanesi e rossoneri al punto di incidere su commissione il brano Dai Tempi Del Paron in occasione del centenario del club, gli Extrema di Tommy Massara suscitano quindi la mia simpatia a prescindere, al di là della quale, però, spaccano di brutto! Massara dal vivo è proprio come me lo aspettavo: un inesauribile distributore di riffoni thrash metal uno dopo l’altro, tutto a cannone, tutto senza respiro. Il pubblico riceve la forte energia e la restituisce amplificata, anche qui urlando cori affettuosi, indirizzati soprattutto – come logico – al chitarrista fondatore. Stiamo parlando di un nome arcinoto: gli Extrema sono nati a metà anni Ottanta a Trezzo sull’Adda, dove tuttora possiamo vedere grandi concerti all’importante Live Club. Astraendo e concentrandomi solo su ciò che ascolto, a me gli Extrema sembrano un gruppo del tutto riferito alla tradizione thrash, semmai con ancora una leggera influenza heavy che si può avvertire qua e là nel sound. Da tempo, però, sono considerati anche una band di groove metal, etichetta che io non ho mai davvero capito e che mi porta a semplificare così: se suoni groove metal, ti piacciono i Pantera. Non che ’ste distinzioni contino granché: anzi, per la maggior parte sono questioni di lana caprina. Mi andava però di spenderci una riga, perché vorrei proprio sapere chi, riprendendosi dalla botta sonora degli Extrema, si produrrebbe in una dichiarazione tipo: «Che gruppo groove metal della Madonna!» (risposta: zero persone). Complimenti agli Extrema, una delle realtà di lungo corso da tenerci ancora strette qui nella penisola.
Da qui in poi, è un climax fino alla fine: sul palco del Luppolo in Rock arrivano in sequenza tre gruppi californiani, uno più storico dell’altro, tutti afferenti, come detto, alla scena thrash metal della Bay Area. Meno famosi – ammesso che l’aggettivo abbia senso – di altri, meno di successo in termini di numeri conseguiti o dischi venduti, meno stabili nella presenza sulla scena a causa di un decennio di scioglimento (tra i primi anni Novanta e i primi Duemila) e di una discografia composta da non molti album, di cui i tre più recenti pubblicati addirittura nell’arco di trent’anni, gli Heathen azzerano qualsiasi possibile scetticismo nei primi istanti di concerto: il livello di intensità, potenza ed esecuzione non ha nulla da invidiare (detto senza retorica) ai mastodonti del genere. Sono un martello pneumatico, gli Heathen, e l’amalgama tra membri storici e componenti di più recente ingresso funziona come un orologio: fatta la tara allo sbalzo d’età, visibile a occhio nudo, il quintetto suona come se fosse insieme da decenni senza alcun cambio di line up. La composizione dell’audience del festival è per la grande maggioranza fedele e appassionata del thrash e il fatto non è da sottovalutare: le persone conoscono le canzoni e si agitano come se non ci fosse un domani (il che, per quanto riguarda Luppolo in Rock 2022, è ahinoi vero). Sapendo a che cosa andremo incontro, la mia parte razionale mi direbbe di risparmiarmi un po’, ma il fuso di testa che di solito riposa in me prende il controllo e mi dice di buttarmi nel pogo: lo faccio e ne esco pieno di botte (nonostante la mia discreta statura, riesco sempre a impattare contro il classico ciclone umano di due metri per un quintale), esausto e felicissimo. Un tizio ciucco e mezzo nudo gira per il mosh pit con gli occhiali da sole sopra la testa: ovviamente gli cadono per terra a tempo zero e un metalhead educato (ne ho incontrati a bizzeffe) li raccoglie e glieli porge, indenni. Il genio li rimette proprio nella stessa posizione e si rituffa nella mischia. Risate e imprecazioni di complicità tra chi ha colto la scena. Costui sarà avvistato con gli stessi occhiali da sole al collo, indossati di lato (è quasi inspiegabile in forma scritta). Nel vortice del mosh pit, dove ci si rincorre in un infernale girotondo per non soccombere, va in archivio anche il fichissimo live degli Heathen (che nome, poi: significa pagano). Ancora due.
La Festbier preserale rinfresca la gola e soddisfa le papille gustative mentre l’affluenza al festival si intensifica a vista d’occhio. Faccio due chiacchiere con Morfo, Batta & Paola Bathory, Nico, Bera, Russu, Gabo & Babo, Ciccio – e chissà quante altre influenti personalità della stagione concertistica classica, esclusiva e di alto rango – ma non mi allontano dal palco e tengo d’occhio la crescente bolgia: voglio stare davanti e farmi legnare a dovere dai cavalieri del thrash metal che stanno per esibirsi. A volume considerevole, parte il grezzo hard rock stradaiolo di Kicked In The Teeth degli AC/DC ed è chiaro che non stiamo più ascoltando musica di sottofondo da cambio palco, ma l’introduzione del concerto. Ci si stringe nello spiazzo in tempo per salutare come si conviene l’apparizione dei leggendari Exodus! Lo stendardo issato alle spalle della band californiana è una gigantografia della mostruosa illustrazione di copertina dell’ultima fatica discografica, Persona Non Grata. Recita la scritta sulla schiena della nuova t-shirt degli Exodus: «Eleven Albums And Still No Ballad!». Ed è proprio così, nel senso che una raffica di bastonate thrash metal a ’sta maniera credo di averla ricevuta forse una sola altra volta in vita mia, ormai un quindicennio fa, grazie agli Slayer, in quel famigerato Heineken Jammin’ Festival veneziano del 2007 che fu poi spazzato via da un’assurda tempesta, il giorno successivo. Solo che qui la situazione è meno dispersiva, tutto è vicino, il palco è lì, il gruppo pure e il carnaio è devastante. Per certi versi – e per alcune persone presenti che me lo confermano, prima e dopo lo show – gli Exodus sono la band più attesa dell’intero lotto del Luppolo in Rock, nonostante non siano gli headliner assoluti. In ogni caso, la performance ci fa più o meno ciò che un distruggidocumenti fa a dei fogli A4. Il chitarrista e leader Gary Holt è adorato dalla folla capelluta e merita tutto il sostegno che riceve e anche di più; amato quasi allo stesso modo è il fortissimo cantante Steve “Zetro” Souza, una sorta di Jack Black del thrash metal nonché una voce da urlo (in senso letterale) e un intrattenitore nato. A sigillare con la ceralacca il patto di amicizia e rispetto che pervade il Luppolo pensa anche lui: da un lato, ci istiga a un wall of death bestiale, rivolgendosi alle due schiere di pubblico e ordinando a ciascuna di fare polpette dei motherfuckers sull’altra sponda; dall’altro, e fuor di scherzo, ci invita a fermarci se serve, a soccorrere chi dovesse ritrovarsi per terra e, in generale, a comportarci in modo responsabile e a non farci del male sul serio. Idolo. Dopo la mitica The Toxic Waltz, la band lascia il palco ma è richiamata a gran voce; rientra e suona Strike Of The Beast, dall’album d’esordio Bonded By Blood, del 1985. Sono tritato e ne avrei davvero abbastanza, sennonché gli Exodus hanno in serbo l’ultima sorpresa: una fulminea cover thrashizzata di Beating Around The Bush degli AC/DC! Riconosco al volo il riff e mi scaglio immantinente nel reparto macelleria: che bordello! Si conclude così un live over the top, subito dopo il quale mi giro all’indietro alla ricerca di H, impeccabile fonico di sala e fedele seguace della band australiana omaggiata dagli Exodus: gli sguardi s’incrociano e ci urliamo qualcosa, il cui senso è che il rock’n’roll comanda, sempre.
La 27ª e ultima band del Luppolo in Rock 2022 non ha bisogno di presentazioni: volendo dar credito alla faccenda dei Big Four, allora i Testament sono i numeri 5 della speciale classifica d’importanza nel thrash metal. A differenza però di gruppi diventati celeberrimi quali i Metallica – che porto con fierezza sulla maglietta di trent’anni fa, taroccatissima, con il retro uguale al fronte – o altri, che nel tempo hanno magari commesso qualche passo falso (adottando per un momento la logica intransigente del fan storico), ai Testament non si può proprio dire nulla: quasi quarant’anni di carriera senza mai uscire dal seminato, una vera e propria istituzione come Chuck Billy alla voce (è una sorta di pontefice thrash metal quando, prima del concerto, si affaccia dal primo piano dei camerini, sorride e saluta), il fondatore Eric Peterson alla chitarra – «Life’s hard but Testament’s harder!» – e ai cori, Alex Skolnick (osannato) alla chitarra e il fenomeno Steve DiGiorgio (straosannato) al basso. Del tutto fuori scala è la new entry alla batteria, roba da non credere: dietro le pelli siede sua maestà Dave Lombardo, noto per 666 fatti, su tutti la militanza pluridecennale nei disciolti Slayer. Lombardo era già stato per un breve periodo con i Testament a fine anni Novanta; ci è rientrato in modo fisso nel 2022 – l’annuncio ufficiale è dello scorso 1º marzo! – con l’evidente intento di consentire a noialtri di sospirare increduli, con gli occhi a cuore: «Dave Lombardo a Cremona…». Il quintetto è dunque titanico, e del resto Titans Of Creation è il titolo del più recente album del gruppo. Come nel caso degli Exodus, un banner di proporzioni bibliche, senza logo, riproduce a fondo palco l’artwork di copertina. È un concerto maestoso: fa impressione vedere da vicino una locomotiva a vapore come Dave Lombardo trainare la band con il suo drumming instancabile e metronomico. Un security fin troppo zelante fa per allontanare uno spettatore, Chuck Billy se ne accorge tra un pezzo e l’altro, interrompe un momento lo show e fa reintegrare il tipo nel pubblico, al grido di: «Nessuno viene mandato via a un concerto dei Testament».
L’atmosfera è davvero quella del trionfo, in tutto: i Testament, la scena della Bay Area, il thrash metal, la musica pesante, Luppolo in Rock, Cremona, la comunità di fan. Un unico turbinio di emozioni e decibel, che magari non è lo stesso per chi è venuto a vedersi solo la domenica rispetto a chi ha vissuto la quasi settimana di festival, ma che altrettanto senza dubbio accomuna il figlio della Kle – un bambino che andrà in prima elementare e che il mercoledì scapocciava tutto contento durante i GunJack – e Dann Arisi, fior di bassista con vari gruppi e felice come un bambino, per l’appunto, nella foto che riesce a scattare assieme al suo idolo Steve DiGiorgio; e le donne del Luppolo in Rock, infaticabili in tutti i settori, e DJ Net, che anima la zona di festival che precede l’ingresso all’area concerti; e Mattia, che spilla birre in continuazione con un sigaro gigante tra le labbra e un cappellino degli Sleep o degli Exodus sulla testa, e Thunder Head, che per l’anno prossimo ha già in mente una serata con i pesi massimi del grindcore (vediamo e speriamo!); e Marco, che sa cosa fare e sa come farlo (non posso immaginare lo sbattimento), e Gloria (poser) e Giada (trve), che s’intrufolano ovunque a fotografare; e Pollo e Mirko, videomaker d’assalto; e potrei continuare. Ora è tutto chiaro, ora è tutto giusto: i Testament hanno suonato per loro, per noi.
Da un lato, il senso di vuoto/mancanza è istantaneo: il festival è appena finito. Dall’altro, mi sento quasi sollevato: avrei retto l’urto di un’ipotetica altra band, ancor più rumorosa, veloce e pesante? Non so.
Luppolo in Rock è stato, è e sarà per Ripo e Bazz, così come per Andrea: persone della Family, persone che se ne sono andate troppo presto e che condividevano la passione per il rock e l’heavy metal, amici, anzi, fratelli, come li chiama Pacio nel discorso finale dal palco, mentre banner commemorativi si srotolano alla loro memoria, celebrata assieme alle famiglie. Coriandoli luccicanti invadono il piazzale delle Colonie Padane. Perfetto: «Prima o poi, quel cazzo di piazzale, lo riempiamo!», dicevano Ripo e Bazz. Missione compiuta, ragazzi: migliaia di presenze. Bevo una birra ambrata e alzo le corna al cielo per voi.
Non ho una chiosa speciale nel cilindro: spero solo che un festival del genere possa continuare a crescere e consolidarsi, non solo perché il panorama italiano degli eventi musicali possa trovare un altro punto di riferimento stabile, ma anche perché è bello che ’sta Cremona fiorente di iniziative riscopra sempre più il cuore d’acciaio che le batte forte in petto, qualche decennio fa così come oggi.
E quindi, nel senso più letterale possibile: viva Luppolo in Rock!