Luppolo in Rock, 19-20-21/07/2024
Si può solo – anzi: è auspicabile – continuare a viverlo nel 2024 con l’entusiasmo della prima edizione del 2018, visto che da tempo non si può più parlare di effetto sorpresa: Luppolo in Rock è ormai una realtà consolidata non solo dell’estate musicale – meglio: culturale – cremonese, ma del panorama nazionale della musica dura, oltre a rappresentare un punto di riferimento per chi ama i festival che privilegiano il lato umano a quello della mera speculazione economica. Dimentichiamo i parcheggi riadattati a luoghi di ritrovo, i pit a cifre astronomiche, le code infinite ad arrostire sotto il sole, i fottuti token e gli orari disattesi. Per la conformazione – sia naturale sia architettonica – del Parco delle Colonie Padane, al Luppolo si trovano ampie aree all’ombra anche nelle immediate prossimità del palco, le attese – per entrare, per bere, per andare in bagno – sono contenute, se si vuole seguire la propria band preferita dalla transenna non si deve fare altro che piazzarsi davanti e meritarsi la posizione, le monete e la carta sono accettate dappertutto, la birra è fredda e di qualità e se sul programma è indicato che un gruppo inizierà a suonare al tal orario, al tal orario inizierà. Non ci vuole altro a rendere ampiamente positiva la recensione del festival in sé, a prescindere dal giudizio di valore sulla proposta artistica, che – come ovvio – varia da metalhead a metalhead, da gusto a gusto, da orecchio a orecchio.
Quest’anno, in tutt’altre faccende affaccendato, mi sono addirittura permesso di saltare in toto il primo dei tre giorni, venerdì 19, quando hanno suonato – in ordine cronologico – il gruppo femminile italiano di pagan shamanic music (così la definiscono) delle Uttern, i milanesi Derdian con il loro symphonic power metal, i progghettoni tunisini Myrath (la band che più mi spiace aver perso), gli indipendentisti scozzesi Saor Patrol e gli headliner bergamaschi Folkstone, riunitisi di recente dopo uno stop di qualche anno. Mi si è detto qua e là gran bene delle band che si sono esibite: per contro, i diretti interessati mi hanno riferito che l’affluenza di pubblico della prima sera non è stata quella delle grandissime occasioni, ma a un certo punto, scrivendo io da fan e da cronista del lato spettacolare della faccenda, non devo – e soprattutto, non voglio – essere schiavo dei numeri. Il metallo pesante non è un voto in pagella, la bellezza di un concerto deve prescindere da quanta gente si presenta a vederlo e quindi bene così, tanto più che la giornata successiva registrerà invece un felicissimo sold out.
Sabato 20 luglio
Veniamo dunque al sabato e alla prima piccola sorpresa che mi ritrovo a vivere al gazebo all’immediata destra del palco: a servirmi è Marco, che a conti fatti mi dà da bere da un quarto di secolo abbondante, dai tempi della sua gestione del centralissimo pub L’Angolo dei Templari (su Cremonapalloza fu pubblicato un reportage del locale). Da lui in persona mi feci preparare un White Russian, catapultandomi ai Templari dopo la mia prima visione del capolavoro Il grande Lebowski all’Arena Giardino, nel ’98. Da lui in persona mi furono versati innumerevoli quartini di bianco, nei primissimi anni Duemila. Da lui in persona mi scolai una quantità indefinita di esemplari di quella simpatica bottiglietta di birra economica che risponde al nome di Peroncino (vent’anni fa costava 1,50 € al pezzo, oggi non so). Da lui in persona, al Luppolo in Rock, ricevo con crucca puntualità una Festbier prima che parta il live di ciascuna delle band in programma, il che mi porta così ad annotare sul mio personalissimo cartellino un onorevole, ma non esagerato, numero 5.
Si capisce già dal nome che gli SkeleToon, il primo gruppo a esibirsi, vogliono sia suonare roba pesante, sia divertirsi e divertire il pubblico: una band che non si prenda troppo sul serio – in apertura di giornata, per giunta – è quello che ci vuole. In tal senso, il cantante Tomi Fooler si presenta sul palco con una maglietta eloquente: la scritta recita sono qui solo per i Gamma Ray (sulla schiena: …ma solo se non fanno tardi…) e riprende la più classica delle affermazioni di chi raggiunge i festival in tarda serata solo per i gruppi famosi e non sostiene le band dal primo minuto. Per fortuna, ciò non vale per le già centinaia di persone presenti sotto il palco, che dimostrano di apprezzare il progetto nerd power metal, così come da definizione che la band si autoassegna. Divertenti, certo, ma anche sicuri dal punto di vista dell’impatto sonoro e della presenza sul palco, arricchita su alcuni brani dal guest Alessandro Conti, cantante dei Trick Or Treat. Il mio preferito: il bassista rock’n’roll con una chioma di lunghi riccioli crespi che svolazzavano a 360°, giganteschi occhialoni da sole con le lenti viola, quattro chili di chincaglieria tra orecchie, collo, polsi e dita e soprattutto un’attitudine I don’t give a fuck davvero notevole.
Avevo già visto i Rain al Luppolo in Rock 2022 (qui il reportage), edizione monstre che aveva riservato ben tre serate infrasettimanali alle band italiane, prima del weekend con gli ospiti internazionali. Promossa e richiamata con merito a due anni di distanza, la band si ripresenta a Cremona in formazione decisamente rimpolpata: gli strumentisti sono accompagnati da un poker di pole dancer, le quali regalano diverse performance al pubblico durante l’esecuzione di alcune canzoni. Una volta escono sul palco inguainate in succinto latex rosso e stivali neri sopra il ginocchio con i tacchi alti un chilometro, in un altro momento rieccole in tenuta da poliziotte con occhiali a specchio e manganelli più che allusivi… Insomma, l’atmosfera generale è quella dell’heavy metal macho anni Ottanta senza compromessi, dove l’ipotetica linea di demarcazione del buon gusto è sempre lì lì per essere superata, ma in fondo possiamo dirla con la Cassidy di Marisa Tomei, a sua volta danzatrice acrobatica nello stupendo film The Wrestler, dopo aver canticchiato sulle note di Round And Round dei Ratt: «Volevamo divertirci. Che c’è di male?».
Il mio preferito: il bassista Gabriele Ravaglia, imponente e dalla criniera invidiabile, il quale non rinuncia allo smanicato nero sopra la t-shirt anche con 666 °C all’ombra – ombra che peraltro resta un’utopia per chi suona, visto che il palco è del tutto esposto al tragico sole pomeridiano del pieno luglio cremonese – e martella a dovere le sue quattro corde, con un bel groove che dona sostanza.
Eccoci al primo nome estero della giornata: i Brainstorm si sono formati in quel di Heidenheim an der Brenz – quando mai mi ricapiterà di poterlo scrivere? – ben 35 anni fa e la formazione è ancora largamente quella originale. Gli stagionati poweroni tedeschi in questione fanno un concerto da voto alto; ancora una volta – e con piacere – noto che l’impianto visivo classicissimo (teschi dagli occhi fiammeggianti, muri infranti e tutto il resto) e il sapore militaresco delle camicie camouflage con il logo della band sono controbilanciati dall’attitudine spesso ironica del cantante Andy B. Franck, ottimo sia per doti vocali sia per simpatia. Il sottogenere power è fortemente codificato, sia negli stilemi musicali sia nelle tematiche affrontate, e – soprattutto nella dimensione dal vivo – occorre qualcosa che lo smitizzi un po’. Be’, i Brainstorm, questo qualcosa, ce l’hanno e il pubblico se ne accorge, anche chi – come il sottoscritto – non conosce il repertorio del gruppo e quindi può solo unirsi ai cori più istintivi, che partono su brani come Escape The Silence oppure Ravenous Minds, dagli album più recenti.
Il mio preferito: il chitarrista Milan Loncaric a mani basse, soprattutto per la bravura alla sei corde, in secundis per la presenza scenica, in terzo luogo per la selvaggia capigliatura canuta e infine perché chiamarsi Milan regna.
Seconda band consecutiva con la tempesta nel nome, gli Alestorm procedono a un allestimento che effettivamente, all’inizio, mi diverte e sorprende: al centro del palco troneggia una mastodontica paperella gonfiabile, identica a una di quelle che si potrebbero trovare nella vasca da bagno o nella piscina di un bambino, riportata in scala gigante. Ciò detto, la formula dei ragazzi di Perth – che si autodefiniscono 𝕿𝖗𝖚𝖊 𝕾𝖈𝖔𝖙𝖙𝖎𝖘𝖍 𝕻𝖎𝖗𝖆𝖙𝖊 𝕸𝖊𝖙𝖆𝖑 – non mi convince, tanto più che adesso mi pare che il tutto sia virato non tanto sul piratesco in senso stretto, quanto piuttosto su una rappresentazione itinerante permanente della festa di San Patrizio e di tutto l’armamentario birraiolo e ubriaco che ne consegue e che non incontra granché i miei favori. Non dico che non ci sappiano fare, anzi; però, all’ennesima canzone che inneggia al fare bisboccia, P.A.R.T.Y. alcolico scandito lettera per lettera, Drink, Rum, baccano gratuito a base di ritornelli tipo «We are here to drink your beer», mi ritrovo ad annoiarmi un po’, proprio l’esito diametralmente opposto rispetto a quello che una band del genere ricerca. Simpatici, bravissimi ragazzi, energizzanti (per una certa parte di pubblico) finché vogliamo, del tutto a tema con il nome del festival, ma non fanno per me. Mi verrebbe da dire che magari sarebbero stati più adeguati nel bill del giorno prima (il venerdì dalle sonorità etniche e folk), ma temo che neanche questa affermazione sarebbe centrata: anche se alla giornata precedente non ho partecipato, credo che lì il valore derivante dalla contaminazione tra identità locali e metallo pesante fosse di altra caratura.
La mia preferita: la sorridente musicista aggiunta Patty Gurdy, dai lunghissimi capelli rossi e dalla carnagione lattea (che la fanno sembrare la ragazza più irlandese del mondo e invece è tedesca), che porta un poco di eleganza e interesse musicale (perlomeno suona uno strumento particolare, la ghironda) nel contesto dell’innocua ignoranza assoluta del resto della band. Il leader era in sandali, dai, ostreghéta!
Divagazione personale: dopo la folgorazione che il me medesimo undicenne ricevette dagli Iron Maiden, potrei dire che il primo nome heavy a colpire il mio immaginario fu un gruppo power metal tedesco, cioè quegli Helloween – gioco di parole che ai tempi nemmeno coglievo appieno – che da pochi anni avevano pubblicato la loro I Want Out. Sulla copertina del singolo, una zucca tutta agghindata a stelle e strisce mi interpellava direttamente, indicandomi con il dito. Neanche in quel caso avevo inteso in diretta la parodia della celeberrima grafica con cui lo Zio Sam invitava i giovani statunitensi ad arruolarsi nell’esercito; però l’illustrazione mi affascinava, e in più apprendevo che la musica dura poteva esistere al difuori di Inghilterra e States. Da allora – da oltre trent’anni, ormai – per me power metal significa Germania e gli Helloween ne sono i più illustri rappresentanti. Ebbene, il fondatore degli Helloween è tra noi: sul palco, finalmente al buio, il leggendario Kai Hansen guida i suoi Gamma Ray alla conquista di Cremona! Ciò che rende oltremodo speciale la serata è che, dopo una manciata di brani, tra cui una splendida Master Of Confusion, il leader Hansen – che suona la chitarra e canta, coadiuvato in quest’ultimo ruolo da Frank Beck in aggiunta – chiama sul palco la voce storica Ralf Scheepers, anch’egli nei Gamma Ray nei tardi anni Ottanta e presente sui primi tre album del gruppo, oltreché fondatore dei Primal Fear, headliner della prima edizione del Luppolo nel 2018. Una vera carrambata del power metal, se non proprio una reunion, quella a cui assistiamo sul palco: l’abbraccio tra i due musicisti è salutato dalla folla con un’affettuosa ovazione. «Bella Italia», ci saluta a sua volta Scheepers, direttamente nella nostra lingua. «Questa sera scriviamo insieme la storia dei Gamma Ray», prosegue in italiano, «nella vostra bella città», e vengono giù le Colonie Padane. La scaletta è strepitosa e senza cali di tensione: l’ora e mezza si dipana attraverso una quindicina di brani, di cui un terzo vedono Scheepers impegnato – come logico – nei pezzi dei primi anni Novanta, in particolare nel bis, in cui arrivano la title track dall’esordio Heading For Tomorrow, datato 1990, e soprattutto – dallo stesso album – Heaven Can Wait, che non posso ascoltare senza che mi venga in mente la sua omonimia con un’altra grande Heaven Can Wait, quella dei già citati Maiden. È lasciando vagare la mente partendo da parallelismi come questo che trovo che il Luppolo abbia fatto centro: il festival non può aspirare alle superstar della musica dura, anche perché, in quel caso, le dimensioni del Parco delle Colonie Padane non sarebbero più sufficienti per contenere l’ordine di grandezza delle decine di migliaia di persone. E allora, come accadde un paio d’anni fa con i Testament – il più grande gruppo thrash metal raggiungibile, escluso il club dei Big Four Metallica, Megadeth, Slayer e Anthrax – e in altre occasioni, godiamoci questi altri pesi massimi del power metal nella nostra città.
Il mio preferito: Kai Hansen, neanche a dirlo, che, in mezzo a un festival di omaccioni di nero vestiti, indossa una chiassosa camicia floreale – che bisogna saper portare – e suona una chitarra ESP personalizzata rossa fiammante, ma soprattutto sfoggia un sorriso gioioso per tutto il concerto. Vedere gente che, dopo tanti anni, anziché eseguire il compitino, ci mette l’anima e si diverte ancora, è una di quelle cose che non smetterà mai di emozionarmi. Vado a casa alticcio e soddisfatto.
Domenica 21 luglio
Pedalando, arrivo al Luppolo più presto per darmi il tempo di gironzolare per gli stand di dischi, oggettistica e tutta la ricca cornice a ingresso libero che precede l’area a biglietto. Becco così Fede – chitarra dei Suicide Solution – e la Wicci – che, quando gli impegni lo permettono, bazzica tuttora i concerti pesanti – che scambiano due parole. Mi fermo lì mentre ci viene incontro Fabio, amico, metallaro doc e volontario del festival. Mentre chiacchieriamo, però, un angolo ben preciso persiste nell’attirare la mia attenzione in modo magnetico: due signore di una certa età, entrambe truccate e ben pettinate, una con un vestito fantasia pieno di scritte, l’altra in total fuchsia, tutte e due sapientemente armate di ventaglio, si godono il panorama capellone dalla loro panchina. Sono irretito. Chiedo il permesso di sedermi, me lo accordano, mi faccio raccontare un po’: sono abituate a trovarsi e a fare una passeggiata domenicale alle Colonie Padane, sedendosi lì e contemplando una composizione umana che di norma, immagino, sarà formata da famiglie con prole. Il fatto che questa domenica abbiano dovuto superare un cordone di security e che il loro spettacolo consista in un’orda lungocrinita che sciama da tutte le parti con un sottofondo di musica rumorosa non solo non le ha tenute alla larga, ma le ha incuriosite per il motivo più ovvio e semplice, e cioè che è qualcosa di diverso. Chiedo l’ulteriore nulla osta per fare una foto insieme, spiegando che la pubblicherei su Internet, se non è un problema. Le due girlz si schermiscono un po’, «Oddio, ma non ho i capelli a posto!» – non è vero! – e simili, ma alla fine c’è l’ok e la Wicci (grazie!) ci scatta foto a ripetizione.
Si fa l’ora dei concerti, punto con determinazione alla mia mattonella sotto il palco – la mia posizione ideale è davanti, leggermente spostato rispetto al centro, perché i cantanti non mi oscurino la visuale dei batteristi – e lì avvisto Janfree, in attesa che parta il live degli Inverno, nei quali suona il basso il cremonese Dann Arisi, già impegnato come tecnico di palco anche in precedenti edizioni del Luppolo. È un ottimo show: il nome della band evoca scenari freddi, secchi e nordici e ben si sposa con il sottogenere proposto – penso si possa parlare di metalcore, senza per questo dover incasellare le sonorità del gruppo solo in quell’etichetta – contrapponendosi del tutto (e quindi in modo interessante) al contesto di temperatura tropicale e umidità da palude. Potenti, compatti, sicuri nella tecnica esecutiva. Che dire: bravi. In effetti, la storia della formazione sotto il moniker Inverno è giovane (poco più di un anno e mezzo dal concerto di debutto), ma tutti i suoi componenti hanno maturato una lunga esperienza sui palchi italiani e non solo.
Il mio preferito: Dann, in effetti, non perché ci si conosca ma perché unisce alla bontà della prestazione musicale un coinvolgimento fisico incessante: il suo continuo headbanging che gli fa volare da tutte le parti i capelli – strategicamente bagnati già all’arrivo sul palco, ottima mossa per non finire con il cranio abbrustolito – è da premiare. Sarà l’anno dei bassisti!
Non è un festival che si rispetti se non si rimane folgorati da una band che non si conosceva: il Luppolo in Rock è quanto scritto e infatti la folgorazione mi arriva dagli statunitensi Uada, attivi da un decennio e provenienti dall’area del Pacifico nordoccidentale. Resto tra il pietrificato e l’entusiasta davanti alla formula del gruppo, ascrivibile al black metal ma con dentro una marea di melodia e riff puliti e riconoscibili, al punto che mi spingo a parlare di black’n’roll. Non è che me lo stia inventando io, eh: il termine è già in uso per parlare di chi unisce le sonorità più estreme a passaggi orientati, in generale, a una sensibilità compositiva vicina al rock degli anni Settanta. Prima: chitarre raddoppiate come in certo hard rock e ritmi midtempo. Poi: sonorità al vetriolo e brutale blast beat. Non una parola arriva al nostro indirizzo dagli incappucciati che stanno tritando il palco, non un intermezzo che spezzi il violentissimo rituale, non una pausa che consenta alla band – vestita in modo assurdamente pesante, quasi autopunitivo, visto il clima – o a noi di tirare il fiato. È solo musica: suggestiva, raggelante, malvagia e per stomaci forti. Non ho nessuna volontà di stupire con il nome di nicchia se scrivo che quello del gruppo di Portland è il mio concerto preferito di tutta l’edizione 2024, nomi famosi compresi. Solo a posteriori andrò a leggermi tutto il leggibile sulla band dell’Oregon e sulle varie controversie che l’hanno vista protagonista, il che accresce su di me il fascino malevolo degli Uada. Trovo fantastici pure il suono del nome del gruppo, anche prima di sapere che significa infestato, e il suo logo, che – ora me ne rendo conto! – avevo già visto, sulla maglietta che Jeff Becerra, voce dei Possessed, indossava l’anno scorso sul palco del Luppolo (ne avevo scritto qui).
Il mio preferito: Jake Superchi, voce, chitarra e capo incontrastato, che comanda le operazioni dal centro del palco. Tuttora non ne saprei identificare il volto: da sotto il cappuccio si vedevano spuntare solo qualche ciocca di capelli fradici e i piccoli ornamenti della barba. Solo alla fine, Superchi si concede di battersi un pugno sul petto per salutarci. Perdio, gli Uada mi hanno emozionato un casino!
Rispetto al concerto degli Uada, l’esibizione degli irlandesi Primordial si colloca all’estremo opposto, se adottiamo come criterio l’interazione con il pubblico e la teatralità ostentata della performance. In particolare, è il cantante Alan Averill – in arte A.A. Nemtheanga oppure Naihmass Nemtheanga e magari altro – a prendersi del tutto la scena: il vocalist, truccato in volto e sulla testa e conciato e vestito di stracci, assomiglia al cadavere senza nome di un appestato del Seicento. Il protagonista costruisce così un vero e proprio spettacolo, sostenuto da una riuscita mescola di folk, pagan e black metal, chiedendoci a più riprese di battere le mani, intonare le classiche vagonate di «Hey!» in coro e partecipare, raccontando storie per introdurre alcuni brani e senza dare l’impressione di farlo per far riposare voce e fiato, ma proprio con l’intento di arricchire lo show. Riuscendoci, a mio parere, e cantando alla grande. E le canzoni, pure, se ascoltate con un minimo di cognizione di causa e badando ai testi, tratteggiano un affresco unico che non sarà il massimo dell’originalità – morte, apocalisse, crolli e disgrazie assortite – ma funziona. Basta mettere in fila i titoli della scaletta per farsi un’idea: As Rome Burns, How It Ends, To Hell Or The Hangman, No Grave Deep Enough, The Coffin Ships, Victory Has 1000 Fathers, Defeat Is An Orphan (bellissimo, questo), Empire Falls. Mi cattura in special modo il discorso che precede l’esecuzione di To Hell Or The Hangman: Nemtheanga racconta con dovizia di particolari la leggenda da cui il brano trae ispirazione. Verso la fine del Quattrocento, nella nota cittadina di Galway, il mercante Walter Lynch aveva ucciso un giovane spagnolo, che a sua volta l’aveva accoltellato in precedenza, in una rivalità amorosa all’ultimo sangue per la bella Agnes. Sindaco di Galway era James Lynch, padre di Walter, che non rinunciò al proprio ruolo, condannando a morte il figlio, reo confesso. La popolazione cittadina simpatizzava per Walter e bloccò la via alla forca; James procedette allora all’esecuzione in prima persona, impiccando il proprio figlio fuori dalla finestra di casa. Da tutto ciò deriverebbe linciaggio, cioè esecuzione sommaria, senza processo. La storia fu presumibilmente inventata nell’Ottocento, ma l’aura romantica, sanguinaria e violenta che la circonda la rende tuttora affascinante. Nel momento in cui l’ora di concerto si conclude, mi sembra di chiudere la quarta di copertina di un racconto lungo, ambientato nella cruda realtà rurale irlandese nei secoli addietro. Primordial promossi.
Il mio preferito: Ciáran MacUiliam, chitarrista, fondatore della band nell’87, capace sullo strumento, potente nella presenza scenica, dotato di un nome splendido e prettamente Irish – e semmai di radice Scottish – e dallo spelling particolare. Le stesse cose si potrebbero dire del bassista titolare Pól MacAmlaigh, che però è assente, sostituito da un turnista.
Ancora una volta, merito del cartellone variegato, si cambiano prospettive, attitudini e sonorità: parecchio attesi dal pubblico nel periodo precedente al festival (si coglie dall’entusiasmo online), i Paradise Lost – inglesi di Halifax – sono fautori di un gothic metal che guarda non solo ai numi tutelari della musica dura, ma incorpora influenze new wave e non necessariamente heavy. La formazione, batterista escluso, è per ⅘ immutata dai tardi anni Ottanta e anche l’aspetto dei musicisti si distacca da quanto visto in precedenza oggi sul palco: pochi capelli, sobrie combinazioni di magliette e jeans neri, nessun eccesso teatraleggiante. Il concerto è più che godibile e, mi ripeto, affascinante: magari Nick Holmes, superati da qualche anno i cinquanta, non è al top della forma vocale, ma controbilancia con il mestiere e l’intensità nell’interpretazione, coadiuvato da una linea strumentale davvero notevole e – come detto – abile nel suggerire colori sonori che pescano fuori dai confini dell’heavy metal e, mi verrebbe da dire, anche del rock in generale. Non a caso, tra anni Novanta e Duemila la band ha sperimentato in modo massiccio con l’elettronica più dark, il che non è per nulla scontato per un gruppo che agli esordi suonava tra death metal e doom e che si è poi addentrato nel prog e ha addirittura lambito il synth pop. La riprova di quanto scritto arriva in coda al live: il brano dall’eloquente titolo Gothic, cioè la title track del disco dei Paradise Lost del 1991 che quasi fondò il sottogenere in questione, lascia spazio alla significativa cover di Smalltown Boy, singolo da alta classifica dei Bronski Beat datato 1984. La hit viene ripresa nelle riconoscibilissime linee melodiche e trasformata, con sapienza, in un inno oscuro, che non solo viene proposto dal vivo, ma è stato proprio inciso sull’album Symbol Of Life nei primi anni Duemila. Dello show dei Paradise Lost non ho amato il fatto di ascoltare in base i cori femminili; ho amato praticamente tutto il resto. Fighi!
Il mio preferito: Gregor Mackintosh (un altro cognome di origine scozzese), chitarrista solista mancino, da più giovane dotato di dreadlocks chilometrici, poi di cresta mohicana e adesso di bianchissima barba scolpita e capelli come spaghetti, che fluttuano attorno alla sua testa mentre distribuisce assoli in favor di ventilatore. Lo zio metallaro che tutti vorremmo.
È il momento dell’ultima band del cartellone domenicale e quindi del festival: i finlandesi Amorphis rappresentano – come ovvio – uno dei nomi più prestigiosi della tre giorni, non solo per un’onorata carriera ultratrentennale e per una formazione che, innesto della voce a parte, è quella degli esordi datati 1990, ma anche perché il gruppo è rinomato per la bravura nei live. La scaletta è massiccia e, anche se non conosco i brani, mi godo appieno l’esibizione, a partire dal fatto che Tomi Joutsen è un cantante con i controfiocchi e uno di quei frontman che danno fondo a ogni energia per coinvolgere il pubblico. Che in effetti si lascia coinvolgere, eccome: a differenza della pole position mantenuta per gran parte dei concerti precedenti, mi tengo un poco più indietro, in un punto che in sostanza mi offre un campo totale del palco, proprio dietro a un gruppetto di invasati i quali, senza fare una piega, continuano a sollevare persone e spedirle sopra le altrui teste e fin oltre la transenna. I pacchi regalo umani arrivano, si defilano e rientrano nel pogo più felici di prima. All’inizio mi pare che i boys, quasi tutti a torso nudo, ultratatuati e grondanti, facciano fare crowd surfing a chi ne ha manifestato un minimo di desiderio; mi accorgo poco dopo che così non è, nel momento in cui l’amico Jappi – amorphisiano convinto, al mio fianco – viene prelevato senza che gli venga chiesto né il perché né il percome e non ho quasi nemmeno il tempo di scoppiare a ridere prima di vederlo sparire nel mare di teste, doppie corna al cielo e sorrisone stampato in ghigna. No, non esiste documentazione video né fotografica, perché io ero lì a godermi il momento e si è trattato, per l’appunto, di un momento. Dovete fidarvi. Mi dicevano, insomma, che gli Amorphis spaccano dal vivo: sottoscrivo anche le virgole. Progressive folk metal? Melodic death metal? Così è (se vi pare). Io ci ho sentito anche un po’ di atmosfera notturna à la Moonspell: sì, devo dire che a tratti mi hanno ricordato anche la superba band portoghese che si esibì al Luppolo nel 2022, forse più per attitudine che per sonorità. In ogni caso, le etichette siano ciò che siano: gli Amorphis sono grandi e sono perfetti per chiudere in bellezza un’altra edizione di Luppolo in Rock.
Il mio preferito: Olli-Pekka Laine, bassista molto rock’n’roll, al limite dello sleaze nel look, che (non mi stupisco di leggerlo) in carriera ha fondato progetti paralleli anche ben distanti dal genere della sua band principale, per esempio gli stoneroni Mannhai.
A differenza degli anni addietro, non ho da riportare discorsi conclusivi né arrivederci alla prossima edizione: la musica è protagonista e su di essa cala il sipario. Se, da un lato, starei ancora a cincischiare volentieri per le Colonie, devo ammettere a me stesso che il corpo reclama riposo. E così, dopo saluti e abbracci, risalgo in sella alla bici e torno alla magione. Dopo aver visto un sacco di gruppi pesanti. Dopo aver assorbito una notevole quantità di decibel. Il tutto, nella mia città. C’è solo di che esserne lieto.
E allora, davvero, viva Luppolo in Rock e appuntamento a luglio 2025!
Foto: Dario De Marco
Foto 12: Wicci
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