Road to Tanta Robba Festival, 07-08-09/07/2022
Giovedì 7 luglio
Arrivo al Parco delle ex Colonie Padane ben prima dell’apertura dei cancelli e in coda ci sono già un paio di centinaia di persone, quasi tutte adolescenti, pronte a fare la corsa per guadagnarsi la transenna del Kiwi Stage e assistere ai concerti serali dei loro idoli: l’headliner è Bresh, prima di lui suonerà Rhove, prima ancora Kuremino, con Diss Gacha ad aprire le danze e il dj set di Kermit (il producer di Paky) a chiuderle. Ma questa è un’altra storia, nel senso che io sono qui per il Boom Stage, palco che propone un programma meno big e più diversificato nell’area laterale alla destra dell’ingresso. Assodato che il Tanta Robba Festival di Cremona – quest’anno in versione Road to, per l’esattezza – è diventato in pochi anni uno dei raduni musicali estivi più frequentati perlomeno a livello di nord Italia, e che il palco grosso ospita di consueto gli artisti del momento, che per tre sere faranno il pienone di pubblico, mi interessa (provare a) documentare una parte che di solito viene meno celebrata e quindi eccomi fisso a guardare tutte le band del Boom Stage. Che poi, «band» è una parola in parte superata: nella musica giovane degli ultimi anni si è assistito a un incremento vertiginoso dei progetti solisti, aperti semmai a collaborazioni con altri nomi.
È il caso della cremonese Selene Ice, che – dopo il set acustico al Porte Aperte Festival di un mese fa – torna a calcare un palco di casa: la giovane cantante urban è infatti sostenuta da un pubblico caloroso. La voce c’è; ci sono comunque ampi margini di miglioramento, anche rispetto alla presenza scenica. Per quei motivi insondabili tipici dei concerti, mi è simpatico da subito Pinderino, che le mette le basi: sarà anche lui giovane come l’acqua e di aspetto lo sembra ancor più, tiene gli occhiali da sole di sera, fa lo splendido, saluta, indica gli amici… Promosso.
Il tempo di fare un giro tra gli stand gastronomici – imponente quello dei dolciumi – e i banchetti degli espositori ed ecco che comincia a suonare la milanese Lu, che si circonda di un’ottima band – mi cattura in particolare il bassista capellone, che non fa cose trascendentali ma ha un bel tocco, e che sembra uscito da un film di Wes Anderson – e porta con convinzione le proprie canzoni. Mi limito a registrare che siamo a due concerti su due a titolarità femminile. Bene così: le donne sui palchi non saranno mai abbastanza, dopo decenni di scene musicali a predominanza maschile assoluta.
Anzi, non c’è due senza tre: a seguire scatta il live della cantautrice romana Valentina Polinori, che si presenta da sola, voce, chitarra acustica e alcune sequenze e basi dosate con parsimonia. Il concerto scorre liscio e mi sembrano superflue le scherzose (ma non troppo) scuse che Valentina ci porge alla fine della propria performance, ringraziando il pubblico per averla ascoltata nonostante la sadness (lo dice proprio in inglese) di cui i suoi brani sono imbevuti. Brava e, come suggerito da lei stessa, da rivedere anche in un contesto più raccolto, magari in veste unplugged totale, senza amplificazione. Aggiungo che saranno pure state tristi le canzoni, ma la ragazza in sé non è parsa triste per niente, anzi, ben felice di bere qualcosa e ballare nel dj set dopo i concerti.
Arriva infine ciò che il grosso del pubblico sta aspettando: il piatto forte del giovedì sono i Sick Tamburo, la band guidata da Gian Maria Accusani, già leader di un nome storico del rock italiano anni Novanta come i Prozac+ e prima ancora, da giovanissimo, membro del mitologico movimento controculturale The Great Complotto di Pordenone. La presenza dei Sick Tamburo è attesa in modo particolare non solo perché il tour si chiama Back To The Roots e promette «20 canzoni di puro rock’n’roll», nello stile punk melodico e analogico più vicino a sonorità anni Novanta che a quelle attuali della band su disco, ma anche perché ci sarà di certo un affettuoso omaggio a Elisabetta Imelio, venuta a mancare nel 2020 dopo una lunga malattia, amica e compagna di avventure di Gian Maria e bassista nei Prozac+ e nei Sick Tamburo. Si tratta solo di vedere come tale omaggio si concretizzerà e, a mio personalissimo giudizio, non avremmo potuto chiedere nulla di più delicato e intimo. Un grande palloncino a forma di cuore è ancorato al palco già all’inizio del concerto: verso la fine, Gian Maria, senza proferire verbo, chiede al pubblico un accendino, che gli viene subito lanciato dalle prime file, e con quello brucia – spezzandolo – il nastro: il cuore s’invola verso il cielo della notte cremonese e il vento che si è alzato lo porta subito in alto, lontano. Il nome di Elisabetta non è nemmeno pronunciato, ma chi c’era – e chi sa – le rivolge un pensiero. Per quanto mi riguarda, è di gran lunga il momento più toccante e commovente della tre giorni. Gian Maria si conferma un figo sopra il palco, dove non manca di fare i complimenti alle tre artiste che si sono alternate prima dei Sick Tamburo e snocciola senza pause una canzone dopo l’altra, e sotto il palco, con un understatement e un’attitudine antistar che si fanno proprio apprezzare. Gira benone anche la band, quadrata e solida, vestita in quasi total black e celata, come da copione, da passamontagna neri e bianchi, un po’ funebri, che ricordano le maschere dei concittadini pordenonesi Tre Allegri Ragazzi Morti. Faccio un salto quando parte l’autocover di Betty Tossica, singolone dei Prozac+ dall’album Acido Acida, non tanto per me stesso quanto per Elmo, carissimo amico e abilissimo fonico di palco, che è un amante della canzone e l’ha ascoltata dalle casse non so quante volte in ’sti anni dopo i concerti al Circolo Arcipelago. Ritrovarsi ad amplificarla dal vivo, suonata dal tipo che l’ha scritta, dev’essere una bella soddisfazione.
Non fanno in tempo a deporre gli strumenti, i Sick Tamburo, che l’after dj set è già cominciato: Gio PT e Bazoo se le suonano, e non è un modo di dire, inanellando a raffica una serie di successi da discoteca rock anni Novanta – con sporadiche concessioni a primi Duemila – che acuiscono l’effetto nostalgindie (neologismo coniato da Q, che ringrazio) della serata, come se ci trovassimo alla Baja Latina di Monticelli e il calendario segnasse il 1998. Chi non vuole mollare si sposta poi nell’area della Melunera, dove vola una deliziosa sangria bianca, si balla la house da un impianto dedicato e si crea spesso un bel movimento di irriducibili delle ore piccole.
Venerdì 8 luglio
Curandomi sempre di arrivare sul presto, mi godo aspetti del Tanta Robba che solo il sole e la relativa tranquillità del tardo pomeriggio possono mettere in luce (letteralmente). Nell’inevitabile frenesia da sbattimento che ben conosce chi organizza concerti, il clima di collaborazione dell’intera squadra del Boom Stage resta invidiabile: il già citato Bazoo e poi Cecco, Elisa, Ferro e Janfree sono un gran bel team, in evidente e stretta sinergia con i tecnici di Acid Studio. Intanto si fa sera e iniziano i concerti.
Ah, caro vecchio hip hop: ora sei la musica per giovani più importante, nel mondo occidentale. Hai scalzato il rock, mica pizza e fichi. Complimenti! L’apertura spetta a Casual & Ice B, rapper cremonese il primo, custode della console il secondo. Schivato il pugno in faccia della grafica del loro striscione a fondo palco (e non è un complimento), arrivano i pugni in faccia musicali (e questo è un complimento): che bravi, perdiana! La mescolanza di flow fantasioso e rapidissimo – che resta ben intelligibile anche durante le barre più frenetiche – e basi dal funky all’electro funziona che è un piacere. Ciò detto, si lasciano gustare anche i momenti rétro, tipo la mitragliata rap autocelebrativa sul groove clamoroso di Another One Bites The Dust – tra le rime, Casual dice che anche Freddie Mercury si alzerebbe ad applaudirlo. L’arroganza vince facile – e il suono Ice Ice Baby, che Ice B fa partire in continuazione e che, per chi sa coglierlo, evoca Vanilla Ice, l’mc bianco più bistrattato di sempre (quanto ghiaccio per rinfrescare ’ste torride notti, tra Selene Ice, Ice B e Vanilla Ice). Promossi, con una riserva che esprimo in breve, dopo il concerto, anche al producer Vago XVII: nel 2022, le rime da maschio alfa – «La tua tipa è rifatta / Me la sono ri-fatta», o qualcosa del genere – hanno rotto la minchia, sul serio! La bravura tecnica di Casual, in ogni caso, non è in discussione.
Ah, caro vecchio rock: ora non sei più la musica per giovani più importante, ma sei sempre duro a morire! L’età media dei Rosco Dunn – band di recente formazione ma di esperienza complessiva pluridecennale sui palchi underground – sarà quasi doppia rispetto a chi li ha preceduti sul Boom Stage, ma i livelli energetici si mantengono alti, espressi, certo, in tutt’altro modo. Qui sono gli strumenti analogici a farla da padrone, tra chitarre elettriche grosse e melodiche, basso martellante e la batteria di Niko, molto precisa e potente; al quintetto base si aggiungerà, per un frammento di concerto, Riky, titolare come gli altri del progetto Rosco Dunn ma anche neopapà da pochissimo, impossibilitato quindi a esserci in toto. Il gruppo propone un bel rock energico à la Foo Fighters, cantato in italiano con un piglio che mi ricorda i Ministri sia nelle linee vocali, sia nelle tematiche affrontate dalle canzoni, talvolta con qualche nostalgia di troppo. Ma amen, siamo delle vecchie cariatidi e ricordarsi con piacere di quando avevamo vent’anni è inevitabile. Ottimo anche il look della band, inguainata in magliette nere strette e skinny jeans, anch’essi neri. Come si va sul palco non è un dettaglio: ha la sua importanza. Alé per i Rosco Dunn.
Una cosa che mi interessa parecchio è il rapporto che s’instaura tra artiste e artisti di nuova generazione e il concerto dal vivo: le modenesi Opposite, che seguono sul Boom Stage, hanno un seguito online – approssimando – dieci volte più esteso di quello, per fare un esempio, dei Sick Tamburo. Non è però detto che web e mondo reale si sovrappongano sempre in modo proporzionale, ed è questo il caso: se la sera prima, per la band di Gian Maria Accusani, il pubblico, pur non oceanico, era presente, vivo e percettibilmente coinvolto dalla performance, qui il live di Francesca e Camilla – e turnisti – scivola via davanti a pochi intimi, e non per colpa delle ragazze, autrici di un pop di discreta fattura, con echi black e duetti vocali talvolta azzeccati. È proprio il tipo di musica a essere fortissimo su Internet ma a non intercettare il tipo di pubblico che si fa i chilometri. Le Opposite si esibivano per la prima volta fuori dall’Emilia: a parte uno zoccolo durissimo, la loro fanbase – al momento – ha latitato.
Avrà avuto senz’altro il suo peso la concomitanza con lo spettacolo di uno dei nomi überpop del momento: sul Kiwi Stage, il barbuto Dargen D’Amico – che, già arcinoto che fosse, si gode l’ulteriore, immensa visibilità sanremese recente – sta esibendosi davanti a qualche migliaio di teste. Sul palco, lo accompagnano, tra gli altri, alcuni fenomeni della musica cremonese da esportazione: c’è Edwyn Roberts e c’è, alla batteria, il mio idolo Tommaso Ruggeri, cioè il motivo per cui ho fatto una scappata al Kiwi, nel cambio palco del Boom. Seguo Tommy da quando era appena uscito dalle scuole medie e suonava già come un predestinato. I contesti in cui lavora adesso che ha trent’anni sono solo una conseguenza del suo talento e del suo impegno: tutto potrei dire, fuorché di esserne sorpreso. Per alcuni brani, si aggiunge il fratello maggiore Giacomo Ruggeri, per il quale valgono i medesimi concetti, sostituendo «chitarra» a «batteria». Prima di Dargen – il cui show si concluderà con ripetute e durevoli invasioni di palco autorizzate, tra cui quella del Sindaco Gianluca Galimberti – avevano scaldato a dovere la platea Caffellatte, cantante pugliese d’origine e romana d’adozione, e i padovani psichedelici Post Nebbia; è stato poi il duo Disco Pianobar a dominare l’after.
Ligio al dovere, torno con piacere al Boom Stage, dove mi prendo una cotta per un tipo che si è messo in transenna e che sembra uscito da una band di glam rock del 1974: alto, capelli biondi mossi, frangia, occhi chiari, blusa scura di lustrini luccicanti, pantaloni a zampa neri, stivaletti. Gli comunico che ha un outfit da paura e lui si schermisce, timido; vorrei chiedergli se è fan dei T.Rex ma non voglio interrompere la magia, così gli chiedo solo se è fan di cmqmartina, ottenendo l’ovvia risposta affermativa. La cantante e autrice monzese, classe 1999 (mamma mia!), raduna un significativo pubblico sotto il palco – ed è un pubblico vero, che conosce i pezzi, li canta e li balla, interagisce con lei ecc. – e porta in fondo un set più che dignitoso. Credo però di non essere influenzato dallo spettacolare Pride Party del mese scorso, con cui si è conclusa l’epocale giornata del Cremona Pride, se dico che mi pare che la giovane faccia un po’ troppo il verso a M¥SS KETA: mosse anni Ottanta, faccia tosta da capa della banda, voce svenevole, ipersessualizzazione costante… Non ci vado matto, ma – mentre lei si alterna al microfono, alla sigaretta e al cocktail, coerente alla tradizione della diva un po’ tossica – mi arrendo e ammetto che ci sa fare.
L’after dj set è una cannonata, come sempre con Demogroove: su un’ossatura di drum’n’bass, il nostro uomo innesta ciò che gli piace e non sbaglia mai. Il suo gusto, del tutto impermeabile alle mode del momento e mai ruffiano, si riflette in pista: Jusbiland si sgancia dal turno al bar per esserci e, scalza, sviluppa un turbine di lunghi capelli riccioli a furia di ballare. Io cerco – con alterne fortune – di starle dietro e, soprattutto, di stare dietro al ritmo forsennato della musica. Ci si dà appuntamento al giorno dopo, per il gran finale.
Sabato 9 luglio
«Tuttavia, la razza umana era sopravvissuta». Mi viene in mente l’introduzione della sigla di Ken il guerriero mentre avvisto certi soggetti che, con il sole ancora alto, sono già a ridosso del Boom Stage per assicurarsi un posto in transenna per l’attesissimo concerto serale. C’è un tipo che sembra un ipotetico Prince scampato all’attacco di una mietitrebbia assassina; ce n’è un altro che si atteggia da rapper ma indossa con nonchalance una maglietta satanista. Il tutto ha un che di postatomico, più che di postmoderno: niente di nuovo – i giovani in questione sembrano usciti da Tank Girl – ma solo in teoria, perché elementi di novità io li percepisco eccome. In sostanza, visto che siamo a XXI secolo inoltrato e tutto è già stato fatto e detto, l’unica è frullare il passato senza alcuna remora e vedere che cosa salta fuori. È chiaro che ’sto cocktail di magliette dei Guns N’ Roses portate oversize – come se la formazione losangelina fosse una posse, non una band – e toppe dei gruppi rock classici, trucco emo e attitudine disagiata (ma si intravede anche chi di sicuro non fa finta), risulta un po’ artefatto; ma – ed è qui che la cosa si fa interessante – potrebbe non esserlo. E non mi riferisco all’aspetto esteriore, ma alla musica. Ma andiamo con ordine.
A sancire definitivamente quanto scrivevo rispetto al rap pensa l’esibizione che apre la serata. Giargo In Arte è un universitario foggiano fuorisede che, con la sua band, propone tanto di ciò che ci fa piacere ascoltare quando desideriamo rilassarci: pop, jazz da lounge bar e soprattutto musica brasiliana, dalla bossa nova in giù e in qui e in là. Ma, alla fine della suonata (e pur definendosi cantautore), Giargo rappa, chiude le barre, fa le rime, mettetela come volete. Con garbo, con stile un po’ stralunato, parlando più di fare l’amore che di scopare (anche se…), ma sempre quello è. Identifico subito in Bologna la sua città adottiva quando, nella canzone più orecchiabile, Kodak, canta: «Ritorna al Cinema Lumière un film in bianco e nero». Hai fatto centro, uomo! Dopo il live gli chiedo come va là al Pratello e mi risponde che tutto sommato è ok, mettendosi una mano sul petto e dichiarando: «Però, per me… Fondazza nel cuore». Bravissimo ragazzo.
Ci avviciniamo alla cosa che sta succedendo con il secondo set della serata: certe volte, Saqqara × Johnma’ invertono l’ordine dei due nomi e certe altre si sommano anziché moltiplicarsi, ma in ogni caso collaborano in modo stabile. Portano sul Boom Stage una formula che mescola generi che, da qualche anno negli States e da pochissimo da noi, dialogano che è un piacere: la trap che tutto assorbe si è imbastardita nientemeno che con l’emo, non nella sua accezione anni Ottanta/Novanta, bensì proprio in quella della seconda metà degli anni Zero, quella scena che era sport nazionale disdegnare, quella tutta testi depressi e spleen a buon mercato. Ma sul serio‽ La risposta è sì: è un recupero sincero, quello che un gruppo grunge anni Novanta avrebbe fatto di una band di hard rock di vent’anni prima. Certo mi è impossibile essere coinvolto dalla loro modalità espressiva (e ci mancherebbe. Una canzone s’intitola Morte, ma non suona come io credo dovrebbe suonare una canzone che s’intitola Morte), ma il concerto lo apprezzo, anche per le buone capacità dello special guest e della band (resto ipnotizzato dal turnista con i capelli biondi a capitello, come li portavo io fino al 1999/2000, come li portavamo tutti, fino a qualche anno dopo i più coraggiosi o incoscienti).
A seguire arrivano i Naive, altra band di rap suonato, con una voce dal tono rauco che si differenzia un po’ dalle altre e, in fondo, con le stesse velleità un po’ romantiche e un po’ frustrate dei gruppi precedenti: nella hit intitolata Bojack Horseman, come la celebre serie d’animazione, ascolto – e poi vado a rileggermi – citazioni dal Luca Carboni di Ci Vuole Un Fisico Bestiale così come versi che potrebbero provenire da Neffa, il tutto filtrato da un’attitudine sempre insoddisfatta e sofferente per amore, tipo il cugino preso male di Ghemon. Spero che il progetto sia terapeutico almeno per la band, perché per me è solo derivativo. Amen.
Sul Kiwi Stage, La Rappresentante Di Lista sta facendo Ciao Ciao a una marea di persone, ma non riesco nemmeno a fare un salto (non ho dato un’occhiata neanche ai concerti di Naska e di Assurdité, che avevano preceduto il duo palermitano, né al dj set finale di Kharfi), perché sono sempre più attratto – proprio come da un buco nero – dalla marmaglia che si sta riunendo sotto il Boom Stage.
Per me La Sad è solo un nome, al limite una fotografia, l’unica che ho visto del gruppo nella grafica promozionale del Tanta Robba. Vi appaiono tre giovani punk infilati in grossi giubbotti che sembrano realizzati riciclando striscioni di marche di birra; ciascuno sfoggia capelli di un diverso colore fluo; l’obiettivo della macchina fotografica è ignorato oppure sfidato da dita medie e boccacce varie.
Dio bono, sto descrivendo La Sad nel 2022 o gli scozzesi The Exploited nel 1982?
Sì, sto scherzando. Ma non troppo, nel senso che l’immaginario che La Sad richiama – attraverso magliette, toppe, spille ecc. – sembra guardare a qualsiasi cosa sia successa dal punk rock in poi, senza distinzioni di genere né steccati musicali ideologici. Hardcore, black metal, emo, scena queer: tutto fa brodo. Romanticismo depresso e satanismo di facciata, Ⓐ cerchiate e croci rovesciate (ne avrei messa una al posto della “t”, ma il carattere speciale non esiste. Quanta ipocrisia nel web). Ok, lo accetto. Theø, Plant e Fiks – anzi, Theø × Plant × Fiks (come lo scrivono loro), perché la moltiplicazione è la cifra della contemporaneità – salgono sul palco e non c’è nulla da fare: le mie perplessità lasciano il tempo che trovano, è irrilevante rispondere alla domanda se tutto ciò mi piaccia oppure no, ma è importante esserci e toccare con mano il bordello devastante che si genera. Pogo selvaggio e un più che riuscito wall of death; ripetute invocazioni a farsi del male e appelli accorati alla grande famiglia La Sad; attitudine suicida e mani che si uniscono a cuore; limoni gay sul palco e blasfemie classiche, preghiere, segni della croce e sguardi al cielo (sul serio), per superare il limite della decenza con il siparietto del salone estetico (la band mette tre fan sul palco e applica loro maschera di bellezza e smalto). I pezzi sono tutti uguali, tutti tiratissimi, tutti con le urla e quel fottuto autotune a manetta, tutti suonati (i tre hanno dietro una band che fa il suo), tutti con le basi e le sequenze e i cori preregistrati e quant’altro. Anche Allo si prende qualche minuto di licenza dal Kiwi Stage per venire a vedere che diavolo succede. D’altronde, il gruppo è diventato così famoso online che, nonostante abbia alle spalle solo una manciata di concerti (di cui il primo, per intenderci, ha fatto sold out all’Alcatraz di Milano), il pubblico conosce tutti i brani del disco d’esordio, la cui copertina assomiglia a quella di Death Magnetic dei Metallica: nella bara in campo bianco ci sono Theø × Plant × Fiks, direi addormentati più che defunti.
Di undici canzoni, cinque s’intitolano Sto Nella Sad (che dà il titolo all’album), Bimbo Sad, La Sad Italiana, Summersad e Another Day Nella Sad. Non fosse chiaro, La Sad sta portando in Italì ciò che si vede negli Stati Uniti con un Machine Gun Kelly, che per me resta il tizio che ha interpretato Tommy Lee nel film sui Mötley Crüe, ma che in realtà è soprattutto un seguitissimo musicista. Partendo dall’onnipresente trap, Kelly ha virato verso lidi genericamente rock, tra emo e pop punk, coinvolgendo per esempio prezzemolino Travis Barker, batterista di tutto (dai Blink-182 agli ottimi Transplants, dalle collaborazioni con vari trapper ad Avril Lavigne, idolo di mia sorella e della MTV Generation nata nei primi Novanta). La gang sta alzando un polverone del demonio sotto il Boom Stage, che Fiks ribattezza Palco Punx, e sul momento mi viene in mente il casino che si creava durante certi live di crossover e rap metal a cavallo tra i millenni. Poi però mi documento e scopro che l’altro grande troncone musicale a cui La Sad si ispira è da brividi: artisti emo trap americani come Lil Peep, XXXTentacion e Juice Wrld, tutta gente nata nella seconda metà degli anni Novanta e tutta gente che già non c’è più, con cause del decesso che stanno tra l’omicidio e l’overdose da farmaci. Dipartiti a fine anni Dieci, poco più che ventenni, come Sid Vicious: roba da far impallidire il Club 27. È andata così. Io non so dire se tra un lustro La Sad sarà una realtà stabile del panorama musicale italiano oppure se tra un anno sarà tutto finito (causa scioglimento e nulla più, mi auguro). In ogni caso, ripeto: mi è sembrato fondamentale essere presente in quel momento, anche se non sono diventato un Bimbo Sad e sono rimasto un vecchio di merda, però a cuor leggero, cioè, sentendomi in diritto di rimanere tale. Spiego perché e poi la smetto: il 9 aprile 2010, i Dari – ragazzi emo pop che nei tardi anni Zero scalavano le classifiche con Wale (Tanto Wale), Tutto Regolare e compagnia – suonarono in Piazza Stradivari davanti a non tantissime fan e, già allora, non avrei potuto sintonizzarmi su una frequenza simile. Figuriamoci a quarant’anni (quasi) suonati davanti a La Sad, che fa una cover a cento all’ora di Wale e la fa davvero, non in modo dissacrante, ma proprio come omaggio, tant’è che il pezzo esiste in versione da studio ed è un featuring tra La Sad e Dari. Sembra che, per La Sad, tra i Dari e i Dead Kennedys non ci sia differenza. Per loro sono due gruppi punk e allora daghe, come si legge tatuato sull’addome del veneto Fiks. Da giovane, mi sarei incazzato e avrei cominciato a pontificare; adesso, mi dico, va benissimo così.
Poco dopo che La Sad e il suo giovane esercito hanno lasciato l’area, subentra un pubblico più adulto e sul Boom Stage si materializza Sibode DJ, un bel furbo anche lui. «Musica niente male dentro a un corpo niente male», si definisce, mentre – in tuta da vhs di aerobica fai-da-te e Onitsuka Tiger gialle come le mie, ma alte – lancia loop umoristici su basi ballabili, tiene comizi esistenziali, generazionali e demenziali, coadiuvato lì davanti dalla figurante Kimberly, animale da palcoscenico e prima (e unica) ballerina del suo corpo di ballo. Basta il di lei Instagram per capirci: @troppo_kimberly. Oh, a tratti la faccenda mi fa ridere di gusto, soprattutto quando Sibode ci insulta passando il segno: «Brutti stronzi, figli di puttana», detto con il tono passivo-aggressivo di chi ha subito un torto e ce lo sta rinfacciando. Da lacrime la lunghissima improvvisazione che sboccia a partire dal ritrovamento di un cellulare smarrito: chi ha perso il telefono tarda ad accorgersene e così Sibode inventa tutta una sottotrama sul problema di ritrovare i cellulari, poterne vedere il salvaschermo ma non poterli sbloccare ecc. Finalmente il legittimo proprietario arriva e, come prova del nove, sblocca il telefono davanti ai nostri occhi: trionfo, giubilo, lieto fine. E sarà lieto fine anche per Sibode DJ, con tanto di crowd surfing insistito.
Bazoo riparte con la selezione di Vero Rock™ dal secolo scorso e me la godo tutta quanta. Poi cerco di (ma non riesco a) sfuggire alle molestie – verbali e fisiche – di Valerio Airò Rochelmeyer, il comico mezzo piacentino e mezzo tedesco che ha curato la rassegna di stand-up comedy al Tanta Robba 2019 ed è ora lì al bar: un fiore quando è sobrio, una furia quando è ubriaco. Poi, proprio partendo dalla maglietta dell’Airò, che reca il volto gigantesco di Bud Spencer in Trinità, conosco una giovane un po’ in bibita che all’inizio non riconosce il suddetto volto (tragedia, sacrilegio, dolore), poi si salva in corner: «Ma sì, Bud Spencer, mio papà mi fa due coglioni così con questi che menano e mangiano fagioli» e altro turpiloquio e bestemmie che non riporto. Insomma, ho voglia di tirare tardi, abbracciando Janfree – che ha un sorriso che gli illumina la ghigna e mi dice solo: «Sono contento» – e salutando l’adorabile Elisa (peccato non averla convinta a mostrarci qualche passo di lindy hop), dando una pacca sulla spalla al sempre stiloso Cecco e scambiandomi sguardi d’intesa con Bazoo, chiacchierando di rock classico con Ferro e facendo il ganassa in giro con Matthew Strong (il cremasco più rock dell’universo), bevendo una birretta in più con Lore e Valca e ben sapendo che, quando rientrerò a casa, il Tanta Robba sarà finito. E se, dopo tre giorni così, tutto ciò che si desidera sarebbe un quarto giorno, allora significa che è andato tutto come doveva andare.
Ci vediamo al Boom Stage anche l’anno prossimo, che si chiami Boom Stage oppure no.
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