Nick Cave & The Bad Seeds – Live @ Alcatraz, Milano, 28/05/2008
La prima delle quattro date italiane del tour 2008 di Nick Cave & The Bad Seeds si è tenuta a Milano, in un Alcatraz da tutto esaurito, mercoledì 28 maggio. Da bravi fan del rock e delle rockstar, il nostro obiettivo è la prima fila. E così, con l’apertura dei cancelli prevista per le sette, a venti alle sei Davide PC e io siamo già in coda. Ci precedono solo una manciata di maniaci dell’australorocker maledetto. Una di costoro, non proprio adolescente, ha un tatuaggetto seedsiano sulla spalla. Dietro di noi c’è invece un individuo spettacoloso, anch’egli non di primissimo pelo, ribattezzato subito (da me) Nick Cave per il trucco dark, i capelli ribelli un po’ neri e un po’ grigi, la camicia bianca con gilet e cravattino neri. A fianco a lui c’è una devastata, ribattezzata subito (da Davide PC) Madonna (Madonna, ok, però dopo esser stata investita da un iveco). Comunque. A dieci alle sette, bello comodo, arriva il caro Lionel Pretzel. La coda, calda ma non asfittica, si apre per permettergli di raggiungerci. Il suo avanzare rapido e il faccino timido di chi la fa un po’ sporca, ma in simpatia, mi mettono di buon umore. All’apertura scattiamo verso la transenna con la tipica corsettina, misto di nonchalance e paranoia. E siamo urlatori alla sbarra, centralissimi. L’unico modo sensato per assistere ai concerti rock è impantanarsi in una serie di azioni e decisioni scomode e fastidiose, come la mia scelta estetica e autodistruttiva di tenere addosso la giacca di pelle marrone.
Puntuali, verso le otto, salgono sul palco gli Ed Kuepper Live, una two men band insospettabilmente formata da Ed Kuepper (voce, chitarra e cacciavite) e Jeffrey Wegener (batteria e cappello da cowboy). Propongono un vecchio garage blues con momenti rumoristici, e le canzoni non sarebbero neanche male, ma i due – ubriachi, strafatti o incapaci che siano – suonano a livello parodia. Se Jeffrey Wegener è un batterista, io sono un batterista. L’ipotesi iniziale è che siano due compagni di liceo di Nick Cave e che lui, in un impeto caritatevole, abbia deciso di portarseli in giro per il pianeta in nome della storica amicizia (nei giorni successivi, documentandomi, scoprirò che non è così, ma vi evito la cronistoria). Anche a un cuore d’oro come Davide PC scappano vari «Basta!» di esasperazione. Il Dinamico Duo porta a termine la propria barcollante performance e gli applausi (più che altro contrattuali) del pubblico generano due sorrisoni sui volti di Ed e Jeffrey. Oh, magari a Canberra vanno fortissimo. Cosa possiamo saperne noi, che abitiamo nell’emisfero boreale?
Poco dopo le nove, è il momento della verità. L’ingresso dei musicisti è accolto da mezza ovazione, che si completa quando, sul malsano giro di basso di Night Of The Lotus Eaters, entra in scena the man, the one and only: Nick Cave!
Giacca, camicia fica e pantaloni supremi, a zampa d’elefante con motivi viola. E i baffi della nuova fase artistica, naturalmente. Da qualche annetto, infatti, il nostro ha decisamente accantonato le tristi ballate pianistiche (intendiamoci: meravigliose) e le atmosfere drammatiche in favore di un ritorno alle aste, al fottuto rock’n’roll, in barba agli sfigati che abbassano la manopola del volume a mano a mano che l’età anagrafica si alza. Questo cinquantenne, invece, spinge come un dannato, e la dimostrazione della sua voglia di suonare rock sta nei tre punti esclamativi di Dig, Lazarus, Dig!!!, singolo trascinante e title track del nuovo (grande) disco, secondo brano nella setlist della serata. In effetti, com’è giusto, il concerto sarà molto improntato sui nuovi pezzi (ne saranno proposti ben nove sugli undici presenti nell’album). Mi viene naturale concentrarmi quasi esclusivamente su Nick, ma meritano la citazione i validi musicisti che lo accompagnano. Troviamo due batteristi, Jim Sclavunos e Thomas Wydler; un bassista, Martyn P. Casey; due tastieristi (polistrumentisti), Conway Savage e Mick Harvey; e infine Warren Ellis, che suona la chitarra, il violino, il flauto traverso e anche delle buffe Mandocaster, cioè piccole chitarre elettriche a quattro corde; inoltre ha una barba enorme, ed è un calvellone. Tutti suonano benissimo, a parte il tastierista in posizione più arretrata, che vanta una somiglianza con Bob Geldof ma fa beneficenza solo a sé stesso, suonando pochino e rubacchiando l’ingaggio. Nick, di contro, si sbatte come pochi: canta, recita, coinvolge il pubblico, suona la chitarra e le tastiere, quindi gli perdoniamo i fogli svolazzanti con i quali richiama alla mente i versi delle canzoni che non ricorda. In caso di emergenza ha una strategia vincente: riempie i vuoti di memoria con degli universali «Fuck», «Fuckin’», «Fucker», «Motherfuckin’», «Motherfucker» (le parolacce le dicono anche i rocker culturali, mica solo i Kiss). Salto nel passato con Tupelo, poi un altro dei brani recenti, Today’s Lesson. Qui comincia la storia d’amore tra Nick e me: siamo tutti sotto il palco adoranti, a cantare «We’re gonna have a real cool time», e lui mi interpella con il dito puntato e gli occhi di un adoratore del Diavolo. «You!», dice. Mi emoziono. «Proprio tu, McA!», ironizza Lionel Pretzel; rido, ma dentro me sento che non resterà un episodio isolato. Intanto, a fondo palco, sulla destra, scorgiamo un angioletto di bambina bionda, avrà sì e no dieci anni, tutta vestita di bianco. Calma e silenziosa, guarda il concerto. La figlia di Nick, o di qualche altro musicista? Non si sa.
Ma torniamo subito concentrati sulla musica, anche perché il pubblico più fedele ha il primo scossone forte della serata, quando attacca Red Right Hand. Sullo schermo vengono proiettate immagini evocative e i potenti set laterali di luci rosse si accendono, abbaglianti. Sul refrain si alza spontaneamente un mare di mani destre. Qualcuno urla in inglese: «Nick! Abbiamo fatto mille chilometri per vedere te!». Lui replica: «And we’ve crossed the motherfuckin’ ocean to see you!». Genio! Anche su Nobody’s Baby Now, cantata alla grande da molti nel pubblico, si crea un gioco di sguardi tra Nick e me, dopo il quale Lionel Pretzel ribadisce: «Sempre tu, McA…». Vero, ma non siamo ancora all’apice del rapporto di coppia. Rispetto ai dischi, praticamente tutti i pezzi sono riarrangiati in modo da risultare più energetici e tirati: veramente d’impatto sono dunque le nuove Midnight Man, con quel malatissimo riff finale di organo, e Lie Down Here (& Be My Girl), una delle mie preferite, sia musicalmente che per via del titolo con le parentesi. Con The Mercy Seat il legame tra Nick e la platea si stringe ulteriormente, consolidandosi in una grande interazione su Deanna. La splendida new wave psichedelica di Moonland precede The Ship Song, poi è il momento dell’amore violento. Nick fatica a ricordare le parole di We Call Upon The Author, e così – come dicevo – improvvisa, prodigandosi in gustose volgarità assortite. A un certo punto, saranno i miei capelli, sarà la giacca di pelle, sarà che mi sto sgolando per cantare (e la pagherò amaramente, perdendo del tutto la voce al ritorno dal concerto), punta proprio me. «You, man! You, man! You, man!». E, visto che continua a ripeterlo a me, gli punto il dito anche io e gli vado dietro: «You, man! You, man! You, man!». «And your motherfuckin’ friends!», chiude lui. Quindi anche Lionel Pretzel e Davide PC vengono chiamati in causa. Spettacolo totale. Naturalmente, il rapporto privilegiato ce l’ho solo io; un astante qualsiasi rompe l’atmosfera iniziale di Papa Won’t Leave You, Henry con un azzardato «Vai, Nicola!» e viene giustamente zittito da Nick: «Shut the fuck up!». Sulla bella, lunga e tranquilla More News From Nowhere cala idealmente il sipario, ma è ovvio che non finisce qui. I cori «We want more!» e «Ni-co-la!» fendono precisi l’aria calda e satura dell’Alcatraz, finché I Magnifici Sette non ritornano sul palco.
La magia di The Lyre Of Orpheus, e degli «Oh, mama» che Nick ci fa cantare, è un ottimo antipasto per l’ultima grande botta di adrenalina: Get Ready For Love! Qualche subumano oscenamente abietto prova a scatenare un po’ di pogo, ma è ovvio che su un pezzo del genere gli spintoni non c’azzeccano per nulla. Qui si canta, si salta e si va in sollucchero tutti assieme.
Su Hard On For Love, il sogno d’amore si corona nell’idillio più totale.
Nick si esibisce in qualche posa, poi si blocca e mi indica silente.
Io lo indico a mia volta e gli sparo il primo «Yeah!» che mi passa per la testa.
E lui lo ripete.
La dinamica tra rockstar e fan inverte per un attimo il suo corso naturale.
Adamo si era accontentato di sfiorare un dito di Dio; io – avido – mi sono preso tutto il braccio.
E allora, per sancire il nostro reciproco «Sì, lo voglio» davanti all’altare del rock’n’roll, Nick si sposta in fondo al palco, si siede al piano e suona una struggente Into My Arms, accompagnato solo dal basso e dalla delicatissima batteria. Questa memorabile ballata rappresenta in un certo senso il momento culminante del concerto, non foss’altro che per la sua esecuzione sussurrata, in contrasto con praticamente tutto il resto della setlist.
La formazione ritorna completa di tutti i suoi elementi per i due pezzi finali: la recente, rarefatta Jesus Of The Moon e la classica, potente Stagger Lee. Che meraviglia.
Salutato a più riprese Nick, ci giriamo verso l’Alcatraz illuminato e ci ricongiungiamo con un disastro di concittadini: la mia cuginetta rock Eta, la sua amica Elena, e poi Carre, Sara Signo, John Doe, Maru, Jonny, JJSante… E ce n’erano altri, che però non recuperiamo nella folla. Il post concerto, oltre a consentire a Lionel Pretzel ed Eta di accaparrarsi delle bellissime magliette, consiste sostanzialmente nei «Ti odio!» di invidia distillata che mi vengono scagliati addosso come anatemi da Eta e Sara (le ragazze avevano intuito che il transennato che dialogava con Nick ero io). Per tutta risposta, mi pavoneggio a livelli scandalosi.
Per coerenza, dunque, non potevo che immortalare tutto quanto così, da questo «dannato punto di vista élitario»*, sostenendo a ragion veduta di essere stato il preferito di quel fico di Nick Cave, al suo strepitoso concerto, vis(su)to con i miei adorati amici rocker. Una serata semplicemente perfetta, sintetizzata come meglio non si potrebbe dalle quattro parole che fanno da titolo a una delle tante favolose canzoni di Nick, parole che rubo per dare un nome a questo reportage, parole che si elevano ad auspicabile consiglio di vita: «get ready for love»**.
* Eta, sms del 29/05/2008, ore 16:26:31.
** Davide PC, sms del 29/05/2008, ore 21:36:24.