Lo spettacolo di Marco Cortesi al Teatro Monteverdi, 18/11/2005
Non so esattamente cosa McA abbia in mente quando mi chiede di scrivere un pezzo sul monologo teatrale Le donne di Pola, di Marco Cortesi, visto al Teatro Monteverdi venerdì 18 novembre. Non so quale debba essere la forma del pezzo, se debba essere esplicativo e descrittivo dello spettacolo, o debba essere un giudizio critico sulla performance, o ancora una rielaborazione delle sensazioni suscitate. Forse un po’ tutte e tre le cose insieme. Pensando in questo mezzo pomeriggio a due righe da buttare giù, ho ripreso in mano il testo dello spettacolo: nella prefazione sono presentati dieci passaggi, i punti salienti del testo. L’autore della prefazione cerca di far emergere i messaggi forti. Questo, indipendentemente dalla lettura che poi ne fa il curatore, è un dato evidente: Le donne di Pola è pregno di messaggi forti.
«Se lo fai è perché stai male dentro, non ti accetti, non sei felice con quello che hai!».
[Marco Cortesi, Le donne di Pola, prefazione di Andrea Canevaro, Trento, Erikson, 2005]
Pensando a come si svolge lo spettacolo e rivedendo il testo mi sono venute in mente un paio di riflessioni che qui accenno: in primis la scoperta della guerra vicino a casa attraverso la tv (le strisce bianche e verdi sullo schermo buio) e l’incomprensibilità di ciò che sta accadendo. Se faccio mente locale sugli anni ’80 della vita, quando io e McA eravamo alle medie, la guerra in Jugoslavia mi appare sfuocata, le poche immagini lucide sono legate al viale dei cecchini a Sarajevo, poco altro: ricordo molto meglio la prima guerra in Iraq (allora mi sa che ero in quarta o quinta elementare). Perché? Sono maledettamente ingarbugliati, i Balcani. Altra cosa che ricordo, ma è un ricordo ricostruito posteriormente, è la notizia di un ragazzo di Cremona, morto mentre portava aiuti per conto della Caritas: Fabio Moreni. Alla sua memoria è dedicato il Largo tra Viale Po e Via Eridano.
Secondo passaggio reso estremamente bene: la volontà di fare qualcosa che diventa azione, pratica. Questa trasformazione non è indolore: provoca incomprensioni in chi ti guarda da casa e, dall’altro lato, mette alla prova lo spirito: ti vai a trovare in una realtà scomoda. Sei in balìa dei concittadini, in cui susciti ammirazione (l’ammirazione, la meraviglia si provano per qualcosa che si guarda e si allontana da noi), mentre, una volta giunto a destinazione, troverai persone per le quali il tuo aiuto non è fondamentale, persone che magari non capiscono cosa sei andato fisicamente a fare (non sei un convoglio pieno di medicine, non sei un fisioterapista che sa come si costruiscono gambe di legno), porti solo te stesso con il tuo sorriso (d’imbarazzo inizialmente. Poi, quando stai per partire, sincero). Una realtà che ti scuote (gli odori).
Terzo punto che Marco rende benissimo: la brutalità e l’efferatezza della guerra, di come sia stata praticata da tutti gli uomini (maschi adulti, tendenzialmente) e di come le vittime siano sempre e solo degli indifesi (i disarmati, dico io).
Quarto e ultimo pensierino: non sei migliore perché sei stato in Bosnia o chissà dove: ovunque tu vada, la strada del ritorno è nota. Inverti la direzione di marcia, un paio di frontiere ed ecco che le case non hanno più i buchi nelle pareti e ti senti di nuovo tranquillo a correre per il prato, ché tanto qui le mine non ci sono sicuro. Due secondi di disagio, e poi sei già perfettamente reintegrato nel sistema.
Il pregio maggiore di Marco è quello di aver capito e messo in pratica il miglior modo per portare aiuto: continuare a parlarne, continuare a portare in giro Le donne di Pola. Non so se queste riflessioni possano essere utili: sono ampiamente interpolate con il mio giudizio riguardo ai campi di lavoro o con le mie esperienze in Paesi colpiti dalla guerra (o in Paesi del terzo mondo): forse non servono.
Marco fa però la cosa più giusta che si possa fare: cerca di modificare la realtà che conosce e che vive quotidianamente. E lo fa con un bello spettacolo.