Presentazione del libro Blackout, 25/09/2004
Gianluca Morozzi è nato a Bologna nel 1971. Grazie alla casa editrice emiliana Fernandel ha avuto la possibilità di pubblicare i suoi primi romanzi: Despero, Dieci cose che ho fatto ma che non posso credere di aver fatto, però le ho fatte, Accecati dalla luce e la raccolta di racconti Luglio, agosto, settembre nero.
Recentemente ha compiuto “il grande salto” pubblicando il suo nuovo romanzo con una casa editrice importante: la Guanda. Per presentare la sua ultima opera, il romanzo Blackout, lo scrittore è intervenuto sabato 25 settembre alla Feltrinelli di Cremona. Di fronte a un pubblico numeroso e attento, Morozzi è stato introdotto dal collega cremonese Andrea Cisi e intervistato da Luca Muchetti. Sono stati inoltre letti alcuni brani da Accecati dalla luce e dallo stesso Blackout.
Ecco alcuni brani dell’intervista, che in realtà è stata più simile a una chiacchierata tra amici.
Blackout racconta di tre personaggi che il giorno di Ferragosto si ritrovano chiusi in un ascensore bloccato e con i cellulari guasti, da dove ti è venuta un’idea così originale?
L’idea risale al 1994, quando il giorno di Ferragosto, appena tornato da una vacanza in Irlanda, ho fatto una passeggiata nella mia Bologna. Non c’era letteralmente nessuno, avrei potuto ballare nudo in piazza e nessuno mi avrebbe visto. Eppure, tornato al palazzo di periferia dove abito, mi ritrovai ad aspettare l’ascensore con altre due persone. Una vera aberrazione statistica, nessuno in giro per la città e tre persone davanti allo stesso ascensore! Salendo mi trovai a immaginare cosa sarebbe successo se l’ascensore si fosse bloccato… Quante ore avremmo passato in quella cabina di metallo in attesa dei soccorsi?
A distanza di tempo ho ripreso l’idea, ma al posto dei miei inoffensivi vicini di casa, ho introdotto tre persone completamente diverse tra loro. C’è un ragazzo di sedici anni che sta scappando di casa e deve prendere la borsa per poi scappare a Parma, dove incontrerà la sua ragazza con la quale fuggirà chissà dove. C’è una ragazza che sta tornando dal suo umiliante lavoro di cameriera vessata, infatti il proprietario del bar la costringe a vestirsi con una divisina succinta e lei, dopo la dura giornata, ha solo voglia di bere un bicchiere d’acqua e farsi una doccia. Infine c’è Ferro, proprietario e gestore di locali, ma anche regista di snuff movies, i film in cui si riprendono le torture inflitte a qualche malcapitato. Lui non abita nel palazzo, ma qui ha un appartamento dove custodisce i “ferri del mestiere”, cioè gli strumenti di tortura, e deve tornare nel bosco dove ha lasciato la sua ultima vittima. Questa è l’introduzione, dopodiché si entra nell’ascensore e il resto è raccontato nel libro.
Quale tecnica hai utilizzato per mantenere alta la tensione lungo tutte le duecento pagine del libro? È vero infatti che da un certo punto in poi non si può più smettere di leggere, eppure tutto si svolge all’interno della cabina dell’ascensore.
Sì, raccontare questa storia è stata una vera sfida proprio per questo motivo. La tecnica usata è stata quella di far salire la tensione fino a un certo punto, poi, quando diventava insostenibile, aprire ai flashback dei protagonisti. In questo modo il lettore può respirare, ma è servito anche a me mentre scrivevo poter “uscire” da quella cabina. Però gli stacchi sono la descrizione di cose già avvenute, quindi la storia raccontata rimane comunque all’interno di un unico contesto: l’ascensore. Prima di cominciare a scrivere questo libro mi sono riletto Stephen King per entrare in quel tipo di atmosfera e mi è stato molto utile, soprattutto per la descrizione maniacale dei particolari.
I tre protagonisti sono molto ben caratterizzati. Come li hai creati? Erano già completamente definiti quando hai cominciato a scrivere?
Non proprio. Avevo sì l’idea delle loro caratteristiche generali, ma devo ammettere che mi è successa una cosa, piuttosto frequente tra gli scrittori, ma che a me non era mai capitata: i personaggi mi hanno preso la mano. In particolare Claudia si è quasi ribellata al ruolo di ragazza sottomessa e di debole della situazione e ha cominciato a dettarmi le sue condizioni, io l’ho lasciata fare. Tomas, il ragazzino, invece è uscito un po’ sottotono rispetto alle mie attese, mentre Ferro è esattamente quello che volevo che fosse: un signore rispettabile che un po’ alla volta fa trapelare la sua natura di soggetto “poco raccomandabile”.
I tuoi primi libri presentavano forti connotazioni autobiografiche. In questo libro pare che tu li abbia abbandonati, a parte gli immancabili riferimenti a Bruce Springsteen, in favore di un’invenzione pura raccontata in terza persona. Qual è il momento in cui uno scrittore smette di guardare a sé stesso per rivolgere l’attenzione al mondo esterno?
Non direi che c’è questo stacco così netto tra i miei lavori precedenti e questo. Sì, in Accecati dalla luce e Dieci cose… parlo molto di esperienze mie, ma in Despero, il mio primo libro, parlavo di esperienze che non ho mai vissuto, inoltre ho usato diverse volte la terza persona anche prima di questo libro. Certo, ho sempre ambientato le mie storie negli ambienti che conosco, Bologna in primis, ma si può parlare del mondo raccontando sé stessi e parlare di sé stessi anche quando si scrive di cose completamente inventate. La vera difficoltà di questo libro non è stata cambiare prospettiva, in fondo è una cosa a cui tutti siamo abituati, quando parlo al bar non uso lo stesso registro di quando sono intervistato; piuttosto, è stato complicato gestire una vicenda così particolare nell’ambientazione e negli avvenimenti. Un libro così non sarei stato in grado di scriverlo due anni fa; ma scrivendo i libri precedenti ho acquisito quella tecnica che mi ha permesso di gestire una storia che, come già detto, avevo in mente di raccontare da anni.
Con la lettura di un brano dedicato allo psicopatico Ferro si è concluso questo interessante incontro, sicuramente apprezzato dai presenti, tanto che alla fine Gianluca Morozzi stesso ha venduto diverse copie autografate e personalizzate del suo Blackout.