Rock Is Only A Feeling

The Darkness – Live @ Alcatraz, Milano, 23/02/2004

Track 1 – Influenza, lettura, derby e treno
Da un mese e mezzo so di un’importante scadenza: lunedì 23 febbraio, cascasse il mondo, sarò a Milano, all’Alcatraz, al concerto dei mitici The Darkness.
Il giovedì precedente mi arrendo al virus influenzale che già ha fatto suoi tutti i miei familiari. Non mi ammalavo da sei anni, non è un’iperbole, l’ultimo giorno di febbre fu il 28 o 29 gennaio 1998, ero in terza liceo e mi ricordo che tornai a scuola il 31 gennaio, ultimo giorno del primo quadrimestre, e dovetti sostenere qualcosa come cinque prove (tra compiti in classe e interrogazioni) in cinque ore. Mediamente andarono bene.
Naturalmente, nei sei anni successivi, ogni volta che si presentava l’occasione di ammalarsi, tipo che tutti in casa avevano la febbre, io resistevo. Ma, mi fossi ammalato in una qualsiasi di quelle occasioni, non sarebbe successo nulla, non avevo impegni o scadenze improrogabili. E quindi, per la legge di Murphy, mi ammalo a quattro giorni dal concertone. Finisce la carriera di unbreakable, e comincia il calvario, soprattutto psicologico.
Subito al primo giorno faccio la conoscenza di un amico tanto buono e tanto caro, che mi accompagnerà per i giorni successivi: un farmaco che si chiama Nimesulene ed è a base di nimesulide (oppure si chiama Nimesulide ed è a base di nimesulene, non so, le due parole quasi uguali erano rivestite della stessa importanza sulla confezione). Quella roba lì, che ha lo stesso principio attivo dell’Aulin, semplicemente ti fa stare bene. Infatti, la sera del secondo giorno di febbre (venerdì) sono già un leone, faccio i salti in camera per autoconvincermi che ormai sto bene, rockeggio che è un piacere.
Ma il Nimesulene (facciamo che si chiama così) non lo puoi prendere più di due volte in 24 ore, perché altrimenti muori. Così, sabato mattina mi alzo e ho comunque qualche linea. Mi nimesulizzo subito, e poco dopo ecco comparire il mitico, rassicurante 36,6 sul termometro. Sono talmente in forma che posso concludere la lettura ad alta voce di AYE. Are You Experienced?, cominciata qualche giorno prima per mio fratello, che, magrolino ed emaciato, si becca qualunque influenza, malattia ecc. Tra le risate di entrambi termino il libro, ricontrollo la temperatura e, finendo l’effetto del Nimesulene, ho un fottutissimo 37,2. Quel poco che basta a essere ammalato. Ma è troppo poca, la febbre, per prendere la magica pillolina bianca, rischierei di piombare a 35 gradi. Dunque, per la prima volta in tre giorni, non prendo nulla.
Tra l’altro, è sabato, e mi perdo il derby Milan-Inter, che comunque seguo in televisione grazie agli amici di Antenna 13 su Antenna 3, e che sembra compromesso dopo il 2 a 0 interista del primo tempo. Il Milan, poi, memore del fatto di avere di fronte una squadra dalla tendenza molto rock’n’roll di suicidarsi appena ne ha la possibilità, va a vincere 3 a 2 in uno dei derby più memorabili della storia recente (dichiarazioni berlusconiane post-partita a parte). Si telefona a Cudiel, si festeggia, mentre in tv c’è Giò Denti (il primo, e meno importante, di questa storia) in mezzo ai milanisti nello studio di Antenna 13, che, in preda al delirio da vittoria, canta «Non vincete mai, non vincete mai».
Sicuro di essermi inimicato l’eventuale lettore tifoso nerazzurro («Ma cazzo, devi parlare di un concerto e ci infili comunque l’Inter?». La risposta è «Sì»), proseguo nel racconto per approdare alla domenica.
Porca vacca, mi alzo e ho la febbre. Comunque vada, mi sono bruciato la possibilità di un giorno di convalescenza. Ho 37,2 o 37,3 fino a metà giornata, poi perdo il lume della ragione e, per vedermi senza febbre, con la tensione alle stelle, prendo un Nimesulene. La temperatura, per mia fortuna, non va giù in modo insensato, ma scende a 36,1 (che è poco, ma vuol dire che non sono ancora un ghiacciolo). Alla sera, effetto del farmaco svanito, sono finalmente sfebbrato.
Madre e padre, essendo madre e padre, mi hanno già sconsigliato di andare al concerto, dovessi anche alzarmi sfebbrato lunedì mattina. Io non ho mai sperimentato l’assenza di convalescenza nella mia vita. Non c’è mai stata un’occasione in cui nel giorno x avevo la febbre e nel giorno x+1, se sfebbrato, ero uscito. Ero sempre stato a casa, da guarito, almeno un giorno. Quindi, figliolo, ragiona: meglio che al concerto non ci vai.
Ma a me viene troppa rabbia al pensiero di perdermi l’evento, e poi, andando sul venale, non mi va di buttare nel cesso 17,50 €. Ho lì un foglietto di carta con scritto male, a biro, «23 febbraio – Milano – Transilvania Live (già, perché il concerto inizialmente doveva essere lì, ma ha fatto il tutto esaurito dopo otto minuti e hanno spostato il gig nel più capiente Alcatraz – mi sono già informato e le ricevute con scritto il nome del Transilvania Live vanno bene comunque) – The Darkness», insomma, è troppa la voglia di convertirlo in un bel bigliettone.
Lunedì mattina mi alzo sfebbrato e mi sento bene. Gambe un po’ debolucce, ma mi sento bene. Il grande giorno è arrivato, e io, tecnicamente, potrei andare. Posso andare.
Ci vado.
Al pomeriggio sono sul treno per Milano, ho con me una borsa con equipaggiamento più glam che ho potuto con la roba che avevo in casa, Nimesulene (due pillole, si sa mai), un’altra pillolina rosa di antibiotico di nome Avalox, quella la devo prendere comunque alle 7 del mattino (i farmaci vengono infilati in modo molto igienico in una custodia per rullini fotografici – plastica dura, custodia nera e coperchietto grigio – la più classica), poi ho spazzolino da denti, spazzola in legno con setole a 360 gradi (non sia mai che i capelli non vengano sistemati un po’ al mattino), cambio sommario di underwear, e soprattutto, elemento fastidioso per il volume dell’oggetto, una coperta. Questo perché Gio Vox (il secondo, e più importante, di questa storia) mi ha detto che a casa sua a Milano non ci sono né letti di riserva, né coperte in più. Il divano mi aspetta.

Track 2 – Milano e l’incontro con Freddie
Gio Vox è un rocker di Castelverde appassionato di lettura, scrittura, filosofia. Scrive racconti e canta in una cover band. A Castelverde c’è una scena che a Cremona ce la sogniamo. I più Castagnìin furiùus sono gli assidui frequentatori del Bar La Brasiliana, tra cui cinque rocker clamorosi, tra i trenta e i quarant’anni, che sembrano una glam band e che erano con noi il 10 giugno 2003 a San Siro a vedere gli Stones. Ma questa è un’altra storia.
Gio Vox mi aspetta lì sul binario a Lambrate, con la siga appena cominciata, imbacuccato e intirizzito dal freddo. Io lo vedo, e, giunto a una distanza ravvicinata, esordisco dicendo la frase ufficiale da groupie che vuole concludere con te dopo che hai suonato: «Tu sei il cantante…». Ci facciamo una ghignata e usciamo dalla stazione.
Nel brevissimo tragitto (sarà un minuto e mezzo a piedi) che separa la stazione di Lambrate da casa di Gio, egli mi introduce la figura leggendaria che ho già avuto modo di salutare telefonicamente e che occupa buona parte della mia immaginazione da svariati giorni: Freddie.
Freddie, dice Gio, è un rocker palermitano diciannovenne (tre anni meno di me, uno meno di Gio) che fa sembrare noi degli amanti del techno pop. A Palermo c’è una scena che a Cremona ce la sogniamo. Gio ha parenti là (anch’io ho parenti là, ma il massimo che ho fatto è stato stazionare nelle loro belle case a Mondello) ed è stato più volte in una villa vicino al mare dove avvengono delle specie di soundsystem rock, cioè rock a volume sparato che si diffonde per tutta la villa, e si annega nei vizi. Ma proprio le cose più traditional, cioè fiumi di Jack Daniel’s e altro. Oppure c’è qualche tribute band dei Queen o dei Pink Floyd che suona, insomma, un paradiso del rocker.
Giunti a casa di Gio, Freddie non c’è. Se n’è andato alla Ricordi a comprarsi due singoli e un dvd dei Darkness, così, tanto per entrare in clima concerto. Io ormai non ci sto più dentro dalla voglia di vedere come è fatto costui, Gio continua ad alimentare questa voglia dicendomi cose come «McA, tu non hai idea…» o «McA, tra poco vedrai Dio…», insomma, si crea una grande aspettativa. E se dovesse essere parzialmente delusa? Mi dispiacerebbe.
I miei timori si riveleranno totalmente infondati.
Parentesi: già il fatto che Freddie (che di nome fa Francesco Rocca, non credo di violare la sua privacy in questo modo) si chiami come si chiama, è geniale. Freddie Rock. Praticamente è nato con il destino nel nome. Il soprannome viene più che altro da una «leggerissima mania», come l’ha definita Gio, per il Divino Mercury irraggiungibile frontman dei Queen, e così gli ho pure preparato un cd di rarità queeniane che ho costruito io con enorme sbattimento, e che non vedo l’ora di regalargli.
Finalmente il campanello di Gio suona, ed entra in casa lui. Meglio di quanto potessi mai auspicare. Un ragazzo dai potenti boccoli scuri, i capelli sono più corti sulla fronte, e gli fanno una specie di frangetta, il viso con scritto «rock’n’roll», i jeans a zampa, la siga (ma non posso ancora immaginare quante ne fumerà).
Gio ci presenta, capisco che Gio ha anche parlato bene di me a lui, percepisco una certa aspettativa anche dall’altro lato, insomma. Allora, dopo i primi scambi di battute, estraggo il cd e come ringraziamento ottengo un ottimo «Ma quest’uomo è davvero un Dio», detto da Freddie a Gio, che intanto si crogiola nel suo ruolo di intermediario che ci ha pompati in modo scandaloso l’uno all’altro, ma che ha fatto un lavoro dannatamente buono.
Subito Freddie inizia a presentarsi per quello che è: dipende essenzialmente dalla nicotina, fuma una quantità di sigarette inenarrabile, diciamo che estraendo a caso un momento della giornata in cui lui non stia dormendo, è probabilissimo beccarlo con la paglia in bocca. La dimostrazione sarà il mio rullino del concerto. Compare in quattro fotografie, in tutte e quattro ha la siga. E posso garantire che non siamo stati lì a dire «Dai, ti faccio la foto mentre fumi». Semplicemente, ce l’ha sempre.
Si inizia a discutere di musica, mentre nello stereo viaggiano i Dire Straits di Walk Of Life, che fanno da colonna sonora anche ai coinquilini di Gio che disegnano (studiano Arte a Brera – tutti molto simpatici). Intanto, iniziamo a cambiarci perché vogliamo andare all’Alcatraz presto e non c’è poi molto tempo. Io estraggo dalla borsa: camicia rosa pesante con doppi bottoni sul colletto; giacca gialla simil-scamosciata con 4+4 spille sul bavero: da una parte, Freddie Mercury, Pink Floyd, Black Sabbath, Jim Morrison; dall’altra, Queen, Guns N’ Roses, AC/DC, Kiss; jeans e scarpe normali (non si può avere tutto); e, last but not least, anello di ferro con teschio con rosa in bocca, che avevo comprato dieci anni fa, in seconda media, al Club 33 quando stava ancora sotto la Galleria 25 Aprile, e che avevo pagato 5000 £. E che avevo perso. Qualche giorno fa, la visione di quell’anello, in vetrina al Pentagramma di Porta Milano, mi folgora, e lo riacquisto a 2,50 €. L’unico oggetto del mondo che non ha subito l’inflazione in dieci anni. Sono stato molto felice di ricomprarlo, mi ha riportato in mente il mio primo anno di vero rock, quando il perché della vita si esplicava nell’assolo finale di November Rain. Riscoperta recentemente, e riascoltata, è sempre un capolavoro assoluto, e l’assolo finale dà ancora lo stesso brivido.
Io sono a posto. Freddie esce da un’altra camera con i jeans a zampa che aveva già, un’ottima camicia nera con lustrini blu tutti sbrilluccicosi, saggiamente aperta fino a metà del petto, e scarpe normali. E qui arrivano le scuse di Freddie, che rimpiange i suoi vecchi stivali in finto coccodrillo con la punta lunga un chilometro e mezzo, e che non ha con sé perché sono ormai distrutti. Gio aveva avuto modo di vederli, giù a Palermo. Purtroppo… Le classiche calzature che usi per fare tutto, no?
Gio, dalla vita in giù, è forse il migliore, pantaloni di pelle nera aderente di scuola Morrison. Invece, sopra, ha una normalissima t-shirt bianca che, fosse accompagnata da un chiodo, sarebbe il non plus ultra, e invece, così da sola, mi manca un po’ di mordente. Gio si giustifica dicendo che comunque avrebbe troppo caldo, dentro l’Alcatraz, per mettere qualcos’altro. Ma del resto, bisogna soffrire almeno un po’.
Si va, metropolitana fino al capolinea della gialla (Maciachini – Dico bene, milanesi?), poi l’Alcatraz è lì a due passi. In strada e in metro, è evidente che i due cantanti con cui mi trovo non possano trattenersi dal lanciare acuti seri, rockeggiare sulle strisce pedonali, e altri numeri del genere. Uno particolarmente bello è Freddie che, in Via Valtellina, si esibisce nell’imitazione di Robert Plant (e la fa benissimo), e che poi specifica che in Rock And Roll dei Led Zeppelin suona anche Ian Stewart, ai tempi tastierista dei Rolling Stones (e mi compiaccio del fatto che lo sapevo già). Eh sì, è così, al momento divertente deve subito affiancarsi il nozionismo maniacale, altrimenti non ci si può fregiare del titolo di “rocker serio”.

Track 3 – L’Alcatraz e i cuori selvaggi
Siamo giunti all’Alcatraz. Fuori c’è già una bella ressa. Fila alla cassa per cambiare il foglietto nel biglietto. Quando arriva il nostro turno, consegno il foglietto mentre ho già l’acquolina in bocca alla vista della pila di biglietti del concerto: il biglietto per i Darkness è nero, con la scritta viola elettrico, il gruppo raffigurato in centro. Figo. Lo vedo già lì, bel bello appeso in camera mia vicino agli altri biglietti di concerti seri: Jethro Tull (a Brescia nel 2001), The Strokes (a Milano nel 2002), The Rolling Stones (a Milano nel 2003), Jethro Tull (a Milano nel 2003) e ora The Darkness, il biglietto più bello quanto a estetica.
Infatti mi danno un merdoso biglietto verdognolo SIAE che neanche se vai al Filo a vedere la rassegna sul cinema indonesiano te lo danno così brutto. Ma porco qui porco là, ma allora cosa tieni lì a fare la pilona di biglietti fighi? Almeno non illudermi, no?
Prima di entrare gironzoliamo per la bancarelle circostanti, magliette, maglie e bandane di qualunque colore esistente e recanti tutte il logo The Darkness fanno bella mostra di sé, in particolare, ad averci i soldi mi comprerei una maglia con il logo non di un colore solo, ma fatto con la bandiera del Regno Unito. Valido.
Il mondo è piccolo – Episodio 1: sono lì che guardo le bancarelle, e Gio sta aspettando che arrivino un amico e un’amica che studiano filosofia con lui, e incrocio un volto che non impiego più di un istante ad associare a quello del chitarrista della Merqury Band, tribute band dei Queen. Chiamo subito Gio mentre il chitarrista, capelli corti davanti e lunghissimi dietro, si sta allontanando, e per far girare il tizio non mi viene niente di meglio da dire che urlare: «Viva la Merqury Band!». Lui si gira, sorride e saluta. Anche noi salutiamo.
Soddisfazioni.
Entriamo, memori del consiglio dell’amico Caru (che comparirà di nuovo nel racconto) abbiamo uno zaino in cui infilare tutti i cappotti (il mio inseparabile eskimo e la sciarpa rossa da ragazzo del ’68, il giubbotto jeans rock’n’roll 1000 di Freddie e il pastrano serissimo di Gio), così paghiamo per appendere un solo capo, che comunque costa una marea, 2,50 €. Io, da Caru, so anche che non si possono scattare fotografie del concerto, e puntualmente ho la mia macchina fotografica, con la quale ci siamo fatti scattare un paio di foto a casa di Gio (il fotografo è stato l’amico, bassista, inquilino dello stesso condominio di Gio, Franscè Ternì), in tasca. Leggo il cartello con Sono severamente vietati ecc., faccio spallucce e mi tengo in tasca la macchinafoto. L’attesa di tre quarti d’ora circa prima che cominci il gruppo spalla è fastidiosa ma non insostenibile. Si chiacchiera un po’ belli stretti, in piedi, vicino al palco, per non perdere preziose posizioni.
Ora, se tu che stai leggendo sei una persona mediamente sensibile, in tutti (o quasi tutti) i concerti a cui hai preso parte, avrai notato un tizio magari da solo, magari con la faccia triste, magari palesemente a disagio. E se sei una persona abbastanza sensibile, ti sarai preso un po’ male per lui per qualche momento.
Ecco, io per queste cose sono molto sensibile.
Un uomo di circa quarantacinque anni, da solo, vestito male, a fianco a me, continuava a mordicchiarsi le labbra e aveva una faccia da cane bastonato che neanche un cane bastonato. Era già a disagio/dispiaciuto per le spinte, naturalmente involontarie, che riceveva da gente ferma che stava chiacchierando prima del concerto, fortuna che dopo un secondo dall’inizio del concerto non si è capito più nulla e non l’ho più visto (così come non ho più visto i miei amici), non avrei retto alla vista di lui che piange per il casino che gli si scatena addosso e cerca di uscirne inutilmente. Questo è stato il momento triste, lo scriverne ora mi ha fatto bene, ne ho esorcizzato un po’ il dispiacere.
Tutto dimenticato, meno male, appena c’è stato da sgomitare già per l’inizio del gruppo spalla, The Wildhearts.

Questo gruppo di rock pesante British non mi ha convinto un granché, sì, hanno scaldato a dovere, ma c’erano troppi fattori non buoni. Innanzitutto, la musica, molto sbadilona e senza un grande appeal. Poi, loro stessi. Cantante con dreadlocks sì lunghi ma fatti male, chitarrista con crestina alla Beckham 2002 e bassista ginöch con la panza da birra. Ora, se tu che leggi sei completamente calvo, sappi che ginöch io lo dico con simpatia. E comunque la colpa è di Caru, è stato lui a dirmi di chiamarvi così. L’unico che si difendeva era il batterista, capelli biondi belli lunghi fino alle spalle, mentre suonava andavano da tutte le parti. Pregio.
E qui, altra cosa che succede sempre ai concerti: sapete quelli che sembra siano venuti per il gruppo spalla, che le sanno tutte, e che spariscono quando entrano gli headliner? Ecco, sempre a fianco a me, poi un po’ dietro, poi un po’ davanti, ma insomma l’ho visto sempre, c’era un heavy metal perfetto, capelli lunghi lisci castani, pizzetto, pantaloni di pelle nera, chiodo con borchie, maglietta nera, robusto ma non burino, volto determinato ma non malvagio, insomma mi ha convinto molto. Costui, oltre a conoscere ogni singola parola di ogni singola canzone dei Wildhearts, si è prodigato, con encomiabile impegno, perché la sua ragazza (ovviamente heavy metal anche lei) non prendesse la minima spinta o botta. E ce l’ha fatta in pieno, secondo me. Il tizio era davvero impegnatissimo, cantava, rockeggiava e intanto allontanava qualunque pulviscolo (in genere persone) si avvicinasse alla sua donna. Un vero cavaliere.
Comunque, a mano a mano i Wildhearts hanno “preso” il pubblico, tranne i soliti sostenitori solo e soltanto del gruppo principale, che dopo cinque minuti hanno iniziato a dire «Sì, vabbè, bravi, adesso fuori dalle palle» e non hanno più smesso finché i Wildhearts non se ne sono effettivamente andati fuori dalle palle.
Fine dei Wildhearts, io sono vicinissimo al palco e mi rendo conto di essere solo, non vedo né Gio né Freddie.
E un telone bianco cala davanti ai nostri occhi.

Track 4 – The Darkness
Il telone è bianco, sporco, rotto in qualche punto. Io, nel delirio di voler documentare qualunque vaccata succeda in questa serata, lo fotografo. Poi, durante la snervante attesa (’sti bastardi si fanno attendere un casino), il telone assume una colorazione violacea, grazie alle luci proiettate dal palco. Lo rifotografo. Poi diventa verdastro. E io ancora lì a fotografarlo. Mi rendo conto di essere uno schifoso maniaco compulsivo e la smetto. Tre scatti dedicati al telone. Non saranno gli ultimi, ma per un motivo onesto, almeno.
Dicevo che l’attesa è stata lunga, e infatti ci sarà stata almeno una buona mezz’ora. Alla fine di ogni canzone che viene diffusa all’interno del locale, tutto il pubblico si aspetta che finalmente i quattro salgano sul palco, ma non è così. Tra i pezzi (ovviamente tutti meravigliosamente rock’n’roll) che vengono inseriti, ricordo con particolare piacere la ultrafamosa (più famosa del suo titolo e anche del gruppo che l’ha scritta) The Boys Are Back In Town dei Thin Lizzy, gruppo per il quale Dan Hawkins, chitarrista dei Darkness, deve avere una «leggerissima mania». A parte per foto o video che richiedano un particolare abbigliamento, l’ho sempre visto con una maglietta dei Thin Lizzy. Sempre. Nelle varianti: logo bianco; logo di lustrini argentati; logo rosso. Thin Lizzy, Thin Lizzy, Thin Lizzy. Quest’uomo sta facendo a questo gruppo una pubblicità furiosa, una marea di amanti dei Darkness se li andranno a riscoprire grazie alle t-shirt nere di Dan Hawkins. Meglio così.
A un certo punto, e naturalmente non alla fine di una canzone, ma in mezzo, quindi con sorpresa degli spettatori, le luci dietro al telone si fanno più intense, la musica si interrompe (non saprei però dire quale fosse la canzone che stava andando in quel momento), e parte un’intro strumentale fatta solo di sintetizzatore. La gente comincia a esaltarsi, e, fattore che scalda corpi e animi, succede che le luci proiettate dal palco verso di noi, quindi interrotte dalla presenza del telone, non siano più uniformi su di esso. Impiego qualche secondo per accorgermi che le zone scure del bianco lenzuolo sono la silhouette, gigantesca, di qualcuno che io sono già sicuro essere Justin, per via della sagoma elastica e delle pose inconfondibili. Riestraggo la vietatissima macchina fotografica e sparo subito due scatti, con uno solo non sono tranquillo. Intanto, l’esistenza stessa sta cominciando a farsi problematica. Sono (siamo tutti) strettissimo, devo scegliere se autoconficcarmi i gomiti nei fianchi, o se alzare le braccia e farmi conficcare gli altrui gomiti. Tanto per cominciare il concerto subito forte, scelgo la seconda ipotesi. Rockeggerò con testa e mani, e lascerò che il mio tronco venga ridotto a brandelli. Va bene così.
Una precisazione è d’obbligo: è da una marea, ormai, che non ho la più pallida idea di dove siano Freddie e Gio, ma, certo che si trovino in una posizione di cui sono soddisfatti, non ci penso più e mi concentro su me stesso. Sono a tre metri dal palco, ma poiché la gerarchia è più facile scalarla nei momenti non ancora caotici, ma con un po’ di confusione, faccio un passo avanti e vedo di guadagnarci ancora qualche centimetro. Ce la faccio, ne passo uno o due come niente fosse, mi fermo a due metri e mezzo dal palco, posizione centrale.
Intanto, l’intro di sintetizzatore finisce, il telone cade e…
The Darkness on stage!

I Darkness hanno fatto una cosa che condivido pienamente: hanno composto un pezzo in studio, che è poi uscito come b-side, che si chiama Bareback e che è l’intro strumentale di tutti i loro concerti. Tu sai che per prima fanno quella lì, che prima di tutto è la canzone scaldapubblico definitiva, e poi è pure bella. Durante Bareback il caos è già vagamente insostenibile, a me e agli altri spettatori delle primissime file iniziano ad arrivare i residuati dei primi surfisti del pubblico, e qui liquido l’unica cosa davvero brutta di tutta la serata: tutti sappiamo che solo in alcuni casi la persona sollevata ha voluto essere sollevata, spesso viene sollevata dai suoi amici e poi spinta in avanti contro la sua volontà, finché non ricade al di là della transenna, un addetto alla security piglia il/la malcapitato/a, che deve ritornare in fondo o addirittura fuori. In sintesi, non è che vai a fare una gran bella fine, ti perdi un pezzo di concerto ecc. Ecco, quindi, ti arriva il fardello, tu non fai altro che sostenerlo a braccia, lo mandi avanti e finisce lì. No. Ho visto davanti a me un bastardo di merda che ha preso a pugni, ma forti, sulle gambe, sul corpo e anche mirando alla testa, un tizio che aveva l’unica colpa di stare lì sugli altri. Per qualche secondo, e solo in quell’occasione, ho distolto gli occhi dal concerto rimanendo a bocca aperta a vedere quella mano che picchiava il tizio, che non riusciva nemmeno a capire da dove provenissero i colpi, e l’unico pensiero è stato: «Ma che cazzo fai?». Ma non ho nemmeno visto in faccia ’sto stronzo, a cui auguro la stessa cosa a parti invertite, a mo’ di contrappasso, al prossimo concerto che andrà a (non) vedere. Ma si può? Già odierei un tipo del genere a un concerto degli Slipknot, figuriamoci a un concerto di love rock. Qui il concetto non è «Pogo, quindi le do o le prendo», no, qui è «Prendo a pugni uno che non può fare nulla». Ma allora fai davvero schifo. Ma vai affanculo, coglione che non sei altro. Ma basta, ho speso troppo per raccontare di una cosa avvenuta in cinque secondi. Andiamo avanti.
La scaletta la mando a memoria, ma con riserva: Bareback, Black Shuck, Growing On Me, The Best Of Me, Makin’ Out, Love Is Only A Feeling, Physical Sex, Get Your Hands Off My Woman, Stuck In A Rut, Friday Night, I Believe In A Thing Called Love, Givin’ Up, Love On The Rocks With No Ice. Be’, dei pezzi dell’album ne vengono proposti nove su dieci, e questa è l’unica scelta che non condivido in setlist: l’esclusione della traccia 10 dell’album, che si chiama Holding My Own ed è in assoluto la più stadium rock, quella per cui tutti estraggono l’accendino e ne sincronizzano il movimento ondeggiante. Non l’hanno fatta. Non so perché. In più, quattro b-side. Totale, tredici pezzi in un’ora e un quarto circa.
Justin è un frontman veramente d’altri tempi, salta, corre, interagisce con il pubblico; in più, cambia tre costumi, ruba la scena agli altri tre, credo di aver guardato che cosa si inventava per il 95% della durata del concerto, agli altri ho dato occhiate fugaci. Un po’ di più a Dan, il fratello chitarrista, nei pochi assoli che Justin gli lascia. Eh, sì, perché Justin Hawkins è affetto da una grave forma di mania di protagonismo: lui canta e lui fa gli assoli di chitarra. Ma dai, scusa, quando c’è l’assolo potresti fare tu la chitarra d’accompagnamento e lasciare l’assolo a tuo brother, no? No. Fa tutto lui. C’è chi sostiene che i Darkness si scioglieranno perché un giorno Dan si romperà di vivere nell’ombra del fratello. Io, a costoro, faccio presente che Malcolm Young degli AC/DC, chitarrista anche lui, vive da trent’anni nell’ombra di suo fratello Angus, e che gli AC/DC hanno avuto tutto tranne che problemi di identità tra i fratelli chitarristi. Almeno in apparenza.
In Get Your Hands Off My Woman, che finisce con un «Motherfucker» ultra-acuto, Justin ci spiega che lui dirà «Mother…», e noi dovremo completare con «…fucker». E si sta lì due minuti finché non lo facciamo come dice lui. Poi, un bel saltone a gambe divaricate, con le dita che vanno a toccare le punte dei piedi, e accordo finale. I finali vengono sempre tirati all’inverosimile, Dan, Frankie Poullain (il bassista) ed Ed Graham (il batterista) stanno tutti attenti a vedere il momento esatto in cui Justin ricade a terra dopo uno dei suoi jump, per chiudere la canzone.
In più, un paio di intermezzi con vocalizzi justiniani che noi dobbiamo ripetere. Si comincia in modo tradizionale, tipo «Aaah-ha»; e noi «Aaah-ha». Si finisce in modo assurdo, con Justin che modula la voce su «Brrr-ah-bzzz» e noi dietro.
Dopo I Believe In A Thing Called Love, altro inno che tutti cantano e che ha, prima degli assoli finali, uno stacco a cappella supportato solo dal battimani sincronizzato, i Darkness escono. E rientrano poco dopo, reimbracciando gli strumenti. Il bello deve ancora venire.
Fatta Givin’ Up, è il momento di Love On The Rocks With No Ice, che è già il pezzo più lungo dell’album, circa sei minuti. La canzone fila via abbastanza normalmente, ma verso la fine gli assoli cominciano a essere allungati, e Justin lancia dei «Love on the rocks», che richiedono ripetizione da parte nostra. Poi, ancora assoli di Dan, e, dato che l’attenzione si concentra ora sul fratello testimonial dei Thin Lizzy, impiego un po’ per capire che sul palco non si vede più Justin. Dopo qualche altro secondo, un boato fa quasi crollare le pareti dell’Alcatraz.
Il walkabout!

Justin ha staccato il cavo della chitarra e ha su un qualche congegno wireless, è salito gambe in spalla a un roadie, che da quanto ne so (quando mi ero documentato) è anche l’amico-produttore Pedro Ferreira, detto Pedro(ck), e si trova alla destra del palco, per chi guarda, ormai calato in mezzo alla bolgia del pubblico. Durante il walkabout, fatto per la prima volta proprio da Angus Young degli AC/DC, Justin si esibisce in un assolazzo pauroso, mentre il roadie cammina lateralmente alla zona più calda, anche se ora, inevitabilmente, la zona più calda non è centralmente davanti al palco, ma è semplicemente quella in cui si trova Justin. Dalla periferia, il porta-Justin sceglie di spaccare il pubblico e si dirige, perpendicolarmente a prima, in senso trasversale, andando proprio, lui come Mosè, a dividere gli spettatori-Mar Rosso.
E qui, la botta di culo.
Durante I Believe In A Thing Called Love, io, che già non ero in formissima, non reggendo alla spinta generale di gente che aveva ben più energie, avevo deciso di “mollare” un po’ finendo più indietro, e così era stato. Dopo pochi secondi, a sette-otto metri dal palco, già respiravo meglio. A dieci o undici, ero del tutto sano e salvo.
La botta di culo sta nel fatto che Pedro(ck), o chi per esso, sceglie di farsi strada nel pubblico tra due file, di cui una è quella immediatamente adiacente alla mia.
Non volendo perdere un’occasione del genere (so che se va tutto bene il treno-Justin mi passerà a 14,7 centimetri tra pochi istanti), sgomito in modo serio, estraggo la fidata macchina fotografica, e, all’arrivo del walkabout nella mia zona, non solo mi premuro di dare un paio di pacche sulla coscia a Justin («L’ho toccato!» – il feticismo del rock’n’roll), ma realizzo due scatti leggendari da vicinissimo, venuti davvero bene. Alé, sono al top. Nella seconda foto, si vede una mano che tiene la mano destra di Justin che cerca di suonare. Dev’essere stata una tendenza diffusa: poi spiegherò il perché.
Il walkabout prosegue fino ad arrivare al lato sinistro del palco, al che Justin risale nel delirio collettivo, e lancia un doppio battimani accompagnato dalla batteria. Senza che lui canti nulla, tutto l’Alcatraz sta già cantando «We will, we will, rock you!» con una foga grandiosa. Tuttora, non so se l’intento dei Darkness fosse davvero quello di lanciare una We Will Rock You inclusa “a cornice” dentro Love On The Rocks With No Ice, ma è successo così ed è stato fantastico così.
Poi, si ritorna ai cori e agli assoli finali di Love On The Rocks With No Ice, che, tra una cosa e l’altra, così a sensazione sarà durata circa un quarto d’ora. Altri salti, vocalizzi, poi la chiusura con l’ormai solito superjump di Justin, e i Darkness salutano, ringraziano ed escono tra gli applausi, portandosi dietro un fantastico striscione dipinto da una fan molto accanita, già mostrato durante il concerto, e che reca una scritta difficilmente interpretabile o equivocabile: Justin, f*ck me!

Track 5 – Dopo il concerto
Il concerto è finito. Prova inequivocabile: è ricominciata la musica nel locale. Ok, i primi pensieri vanno subito al fatto di avere assistito a un grande concerto, al fatto che loro hanno suonato proprio bene, ma anche, e dopo ogni concerto che vedo ci penso un po’, al perché il volume venga tenuto sempre così assurdamente alto. Il bello è che trovo conferma in molte persone a cui espongo questa lamentela: ma perché tutto è sempre sparato a mille? Ma è la gara a chi ha il locale con l’impianto più potente? Boh.
La folla comincia a defluire verso l’uscita, e solo ora, mentre comincio a guardarmi intorno per cercare le teste di Gio e di Freddie, mi accorgo della varietà di pubblico presente in serata: a luci accese cominciano a comparirmi da tutte le parti punk, heavy metal, dark ectoplasmici, insomma un po’ di tutto. Anche un paio di skin (!). Stringhe rosse, per fortuna. E naturalmente glam rocker, alcuni davvero pregiati.
Mi dirigo verso il bar interno al locale, salendo di qualche gradino spero di vedere qualcuno, e infatti poco dopo becco Freddie, che raggiungo con una pacca sulla spalla facendomi vedere. Saliamo insieme al bar, io ho un bisogno mostruoso di un bicchiere d’acqua e so che mi arrenderò al prezzo postatomico di 1,50 €. Faccio un po’ di coda con Freddie che intanto, però, sta cercando di scroccare una siga! Ma è mai possibile? Dopo un concerto, hai perso ogni liquido, e non solo non cerchi di bere, non solo non ti mantieni come sei, no! Cerchi una sigaretta! Ma come puoi volerla, in quella bocca lì che è più asciutta di un secchio di sabbia? Freddie è una belva.
Ottengo il mio bicchiere d’acqua, che mi salva non poco la vita, riprendo lo scontrino che nessuno mi ha spezzato, vado da Freddie e glielo consegno dicendogli di pigliarsi anche lui un bicchiere. Ho paura che mi muoia lì. Lui prende, va e beve. Meno male. E intanto il prezzo per ogni bicchiere è già sceso a 75 centesimi. Eh, se siete bastardi e fate quei prezzi lì, a me viene in automatico la voglia di fottervi!
Gio non si vede ancora. Freddie, intanto, ha scroccato la seconda siga (ma come fa?), e io posso fare ancora un paio di foto. Io a lui, lui a me, e il rullino finisce.
Poi me ne racconta una sul walkabout che dà il pago alla mia semplice pacca sulla coscia: mi dice (e se ne vanterà per le successive quattro ore circa) che mentre Justin passava davanti a lui, Freddie gli ha tenuto la mano destra, impedendogli fisicamente di suonare. Per tutta risposta, Justin ha strappato via la mano, apostrofandolo con un rock’n’rollissimo «Fuck off!». E da lì, la frase in loop di Freddie fu: «Oh, hai capito, mi ha mandato affanculo…» o simili. Era troppo contento dell’evento. Io gli do ragione.
Arriva Gio, a cui Freddie al volo ripete del «Vaffanculo!» hawkinsiano al suo indirizzo. Gio è l’unico che non l’ha toccato. Un’amica di Gio ne racconta una che dà il pago a quella di Freddie: dice che lei è riuscita a baciargli il culo mentre passava. Se è vera, complimenti a lei.
Con Gio e Freddie si commenta il concerto, Freddie è convinto che «Black Shuck fu qualcosa di spettacolare», Gio ripete «Grandioso, grandioso…», io sono troppo contento di Get Your Hands Off My Woman e del walkabout. Intanto dobbiamo fare una fila biblica per riprendere lo zaino, che alla fine, nella stanchezza-contentezza, ritorna nelle nostre mani. Estraiamo i cappotti, anche se ho un caldo della Madonna già di mio, non posso non mettermi l’eskimo, altrimenti l’escursione termica esterna mi annichilirà. Fortunatamente, l’ora non è tarda, e la metropolitana è ancora in funzione, anche se ancora per pochi minuti. Ci sbrighiamo un po’ e riusciamo a prenderla.
Il mondo è piccolo – Episodio 2: al cambio tra la gialla e la verde, chi incontriamo? Caru! Una pacca, un «Che cazzo ci fai qui?», un mezzo abbraccio. Gli raccontiamo a grandi linee il concerto, lui se ne sta andando a casa di alcuni suoi amici e poi dormirà là. Facciamo un pezzo di verde insieme, due chiacchiere, poi ci salutiamo.
Il mondo è piccolo – Episodio 3: in metropolitana incrocio e saluto un ragazzo di Cremona che a Cremona non vedevo da anni. Succede così.
Tornati a casa di Gio, parliamo un sacco non solo del concerto, noi tre assieme agli amici di Gio, e – pam! – si fanno le 04:30 del mattino. Valido. Io scopro che alla fine è meglio se vado a dormire nell’altra palazzina, a casa di Franscè. Mi piazzo lì in camera, su due poltrone consecutive ma non attaccate. All’inizio ho paura di cadere, ma poi capisco che non può succedere. Mi ricordo di mettermi bicchiere d’acqua e pillolina rosa accanto al “letto”, mi copro con la mia coperta, imposto la sveglia del telefonino alle 07:00 e crollo. Due ore dopo, mi sveglio, mi antibiotizzo, e ridormo.

Track 6 – The day after
A mezzogiorno, mi sveglio. Di lì a poco, con involontaria puntualità, Gio e Freddie scampanellano. Mi sistemo sommariamente, rimetto la felpa grigia d’ordinanza, saluto e ringrazio Franscè e ce ne andiamo a fare un giro in stazione, noi tre più un altro amico di Gio, Baldro, per sapere se c’è un bus navetta o qualcos’altro che possa riportare Freddie all’aeroporto nel tardo pomeriggio. Una volta informati, andiamo a pranzo in mensa all’università.
La sede centrale dell’università di Milano è molto bella, da quello che ho capito ogni dipartimento ha un suo chiostro, è molto caratteristica, insomma. Mangio una delle peggiori pastasciutte degli ultimi anni, d’altronde si paga poco, poi c’è tempo per un caffettino al bar.
Torniamo a casa di Gio, e non paghi piazziamo i Darkness nello stereo. Chiacchieriamo ancora un po’, ma per me si avvicina il momento del ritorno in treno. Saluto un bel po’ Freddie, mi ha fatto veramente piacere conoscerlo, al di là dei vizi e stravizi è simpatico e ne sa. Saluto anche Gio, che in ultima istanza mi propone di restare a Milano un altro giorno, ma non posso. «Ciao, ci vediamo» e me ne vado, dirigendomi a Lambrate.
La sensazione di pace, quella di quando tutto è finito ed è andata molto bene, mi coglie piacevolmente nel tragitto casa di Gio-stazione. Là, prenderò il treno su cui troverò la mia ragazza, pendolare milanese di ritorno da una giornata di lezione all’università, in arrivo da Milano Centrale. E, per fortuna, la trovo.

Riguardo l' autore

McA

Si registra sul Forum di Cremonapalloza in data 01/02/03 senza farlo apposta e senza sapere che quel momento costituirà davvero un nuovo «Via!» della sua vita.
Nel 2006 è tra i fondatori dell’Associazione Cremonapalloza, di cui ricopre da sempre il ruolo di Segretario.
Ama il cinema, il rock e la Cultura in generale.

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