The Darkness - Last Of Our Kind
Non c’è tre senza quattro: i miei idoli The Darkness hanno infilato un nuovo album nella loro discografia e un nuovo tassello nella storia del rock classico, quello da stadio, entusiasta e rumoroso, melodico e sbruffone, come loro sanno fare benissimo e di cui restano quasi gli unici depositari sul pianeta, se per un momento non consideriamo l’underground. Gli ultimi della loro specie, giustappunto, in senso cronologico, musicale e di attitudine.
Non è tutto convincente in ogni episodio, questo album, ma il voto massimo è assegnato quasi d’ufficio, quando nel globo si fa fatica a trovare in giro magnifico hard rock a tinte glam e tamarre, mentre Justin Hawkins (colpevole di capelli più corti rispetto al passato) e compagnia sembrano non esaurire mai il silos del divertimento e la spinta energetica che accompagna la band dai primi anni Duemila. La formazione, come era accaduto nel secondo album, non è più quella originale (era tornata a esserlo nel terzo): alla batteria, Ed Graham ha lasciato il posto alla brava Emily Dolan Davies, che però si è limitata a registrare Last Of Our Kind per poi uscire subito dal gruppo. A percuotere i tamburi ora c’è, spero in via definitiva, Rufus Tiger Taylor, ventiquattrenne figlio d’arte, visto che il padre è l’inarrivabile Roger, drummer dei leggendari Queen.
Ebbene, le tre tracce iniziali stenderebbero un bue: Barbarian si colloca nella scia delle canzoni darknessiane a tema storico/epico: tra un riff da paura e l’altro, la voce cangiante di Justin ci narra dell’invasione da parte dei Danesi e della decapitazione di Edmondo dell’Anglia orientale. L’attacco di Open Fire sembrerebbe fare il verso ai mitici The Cult della strafica She Sells Sanctuary, ma francamente me ne infischio e mi godo l’andatura incalzante e gli assoli di Justin e del fratello Dan Hawkins. La title track, Last Of Our Kind, si innesta su un tappeto di chitarra acustica, anche se poi è tutta spezzata ed elettrica e con il coro, come gli inni devono essere, e mai come in questo caso il coro è tale, visto che vi partecipano centinaia di fan che hanno risposto all’appello della band. Il risultato è commovente, se mi si passa il termine, poiché ogni appassionato di rock sul pianeta si sente giocoforza chiamato in causa in quanto esemplare in via d’estinzione, conservatore della specie ed eroico baluardo in un mondo il cui cielo è oscurato dalle frecce della musicaccia da club.
I ritmi rallentano con Roaring Waters, che ha un’ottima linea di basso, ma a cui manca qualcosa per essere il brano memorabile che potenzialmente è. E non è del tutto azzeccata nemmeno la tradizionale power ballad inserita in quinta posizione: Wheels Of The Machine, davvero troppo ruffiana anche per gli amanti del cattivo gusto come il sottoscritto, non è al livello dei precedenti lentacci della rock band di Lowestoft. Si vira poi verso Mighty Wings, apprezzabile tentativo di (quasi) prog rock: il pezzo è lungo e potente, ma, in alternativa, lo si può trovare troppo lungo e potente. Ampiamente costellata dal falsetto spaccabicchieri d’ordinanza è poi Mudslide: «This ain’t no double entendre / This ain’t no euphemism / This is real life / I’m describing a natural disaster», ammonisce Justin durante lo stop and go iniziale. Cos’altro dire, se non che quest’uomo scrive da oltre dieci anni i testi più divertenti (e con il lessico meno scontato) del rock?
Le ultime tre tracce fanno il paio con le prime tre: si torna su livelli altissimi. Sarah O’Sarah è una scanzonata filastrocca con le chitarre raddoppiate e staccate di una terza, come piace a me (cioè come piace a chi ama il puttana rock); Hammer & Tongs sembra uscita dalle sessioni di registrazione di un album degli Stones dei primi Settanta, con quell’incedere pigro (che però non rinuncia all’impatto) e quel riff quasi boogie a sostenere un refrain che si incide nel cranio al primo ascolto. La vera sorpresa è la splendida chiusura di Conquerors, dove troviamo il bassista Frankie Poullain alla voce principale (e il nostro se la cava egregiamente): lo spirito di unione, identità rock’n’roll e sovrumana resistenza (in un panorama che del rock non è più) tornano prepotenti, consegnando l’ascoltatore a un orgoglioso finalone tirato lungo, con il coro a ripetersi ad libitum (e non è difficile immaginare che dal vivo sia proprio così).
Resta da dire che dell’album è disponibile anche una versione deluxe, che contiene, oltre ai pezzi già citati, anche Messenger, Always Had The Blues, Million Dollar Strong e I Am Santa: quest’ultima è il secondo brano di Natale con cui la band si cimenta, non riuscendo però a raggiungere la perfezione di Christmas Time (Don’t Let The Bells End), probabilmente la migliore rock song natalizia di sempre, uscita nel 2003.
Come si suol dire: se non ci fossero, bisognerebbe inventarli. Lunga vita alle rocce The Darkness, lunga vita alla roccia del rock.
Commenta