Musica Recensione Musicale

Muse – Origin Of Symmetry

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Muse - Origin Of Symmetry

Forse non è solo questione di tecnica e apertura mentale, di buone idee ed estro nell’applicarle agli strumenti: forse dietro a questa creazione c’è davvero qualcosa di incomprensibile, di superiore, che si potrebbe pittorescamente far coincidere con la fantomatica musa di Devon, città natale del trio, le cui note ispiratrici possono aver permesso a tre giovani promettenti musicisti di racchiudere undici capolavori in altrettante composizioni sonore di pochi minuti, da dare in pasto poi ai nostri timpani assetati di bellezza… Forse era destino che si arrivasse a ciò, forse era già stabilito fin da quando un Matthew bambino, sui banchi di scuola, passava i minuti segnando sulle proprie braccia con un pennarello nero il percorso delle vene fino ad arrivare alle mani, le stesse mani che oggi ci regalano grazia e ricevono gloria. Chissà se quel bambino, allora alle prese con il pianoforte, era consapevole di quali livelli avrebbe raggiunto la sua musica non molti anni più tardi…
Certo, è un’ipotesi affascinante, ma chi come me adora i Muse e non crede al destino sa che ciò non è possibile. Sa che Origin Of Symmetry è il risultato di anni di esercitazioni e duro lavoro, mesi e mesi di prove, sudore, divertimento, rabbia e depressione, incertezza, armonia, genialità del singolo, ancora prove… C’è quasi tutto, è vero, ma è così che si deve ricercare la perfezione, spremendo corpo e mente per arrivare all’espressione assoluta dei propri sentimenti, per sorprendere ed appagare l’ascoltatore con una sincerità elaborata, ma semplicemente bella. E cosa, meglio di un intero album, dà questa possibilità a chi sa parlare in musica?
Ma chi dalla nostra parte ha il semplice lavoro di ascoltare e giudicare può beatamente fregarsene del percorso che porta al risultato finale, per quanto possa essere interessante e infarcito di elementi fuori dall’ordinario: quello che conta è il prodotto, ed il prodotto stavolta è eccezionale.
Il primo singolo che ha cominciato ad emergere dalla massa con prepotenza in Italia è stato New Born, che è anche la prima traccia del disco. Se dovessi definire questa canzone con una breve frase userei questa: sei minuti di puro sballo. New Born è il degno inizio di Origin of Symmetry, una lunga marcia che comincia con la calma dell’arpeggio di pianoforte e delle conseguenti note di basso, per esplodere poi con un riff insieme violento e orecchiabile, sconfinando quindi nel ritmo incalzante e irresistibile della canzone, che trascina alla fine senza più una sosta. Un motivo decisamente duro che si gode nel riascoltare più volte, senza mai stancarsi della voce potente di Matt e della distorsione pesante della sua chitarra.
Quasi in contrasto con l’ansia scatenata del primo trip, arriva Bliss, seconda traccia del disco, che si presenta come una specie di “inno alla gioia” caratterizzato dalla continua e magnifica armonia barocca di sottofondo. Un pezzo inconfondibile, che pur avendo meno spessore del precedente, riesce a rendersi accattivante e a radicarsi senza scampo nel cervello dell’ascoltatore, grazie anche al ritornello quasi sospeso dal resto della canzone, persino dalla realtà che in quei pochi istanti sembra divenire distante e perfetta. L’influenza della musica classica nei Muse si fa sentire come non mai nella terza traccia, Space Dementia, nella quale Matthew decide di dimenticarsi per un po’ della chitarra e di sfogare con non meno vigore le sue emozioni più profonde sul pianoforte. Da un breve intro tristemente dolce e sussurrato di solo piano, si passa d’improvviso alla strofa, che cattura immediatamente con la sua ostentata complessità strumentale, sulla quale la voce del cantante, più grave del solito, si appoggia con estrema naturalezza. Una serie ripetitiva ma stupenda di scale che sfocia nel ritornello, più tranquillo e sognante, quasi a voler rappresentare concretamente quella sorta di sensazione beata e spiazzante (paragonata appunto alla demenza spaziale) che si prova quando si ricerca se stessi negli occhi di alcune persone. Una canzone veramente imponente, la cui parte conclusiva ritrova la chitarra per sorprendere davvero chiunque, avvicinandosi anche alle più pessimistiche sonorità death.
Dopo tanta magnificenza classicheggiante, ci stavano quattro buoni minuti di puro rock, ed ecco che arriva la graffiante Hyper Music, canzone volutamente meno complessa delle precedenti, che segna una decisa svolta dopo la prima incredibile parte dell’album, quasi a voler rimarcare il lato più selvaggio dei Muse. La strofa, piuttosto tesa ed accattivante, lascia presto lo spazio al ritornello in cui Matt abbandona la sua tipica soavità canora per prodursi nello scream estremo, pur senza esagerare. La durezza del suono in questa parte è seguita da quella del testo, che pare voler dire che per una volta anche noi possiamo fregarcene del prossimo e persino rinfacciargli la sua condizione. Ed è sulle stesse note finali di questa potente sferzata che comincia uno dei cavalli di battaglia del gruppo britannico: la super magnetica Plug In Baby, che raccoglie lo spirito più pop e sballato del trio e con un riff semplicemente stupendo e impossibile da dimenticare, unito ai tre semplici accordi del ritornello, diventa una pietra miliare del rock inglese. La banalità strutturale di questa canzone (riff iniziale, strofa, ritornello, strofa, ritornello, riff finale), caratteristica quasi atipica nei Muse, contribuisce a fissarla irrimediabilmente nelle nostre teste, dove risuonerà per sempre con la sua eco terribilmente elettrica ed affascinante. E possiamo star sicuri che, quando anche noi impugneremo una chitarra e potremo schiacciare il pedale della distorsione, non riusciremo a fare a meno di provare a suonarla almeno una volta.
Dopo un capolavoro talmente blasonato, ascoltiamo con attenzione quello che forse è il punto più alto della composizione di Origin Of Symmetry, vale a dire Citizen Erased. Questo lungo e altisonante pezzo di quasi otto minuti unisce una grandiosa complessità melodica – tanto che potrebbe quasi essere diviso in capitoli – alla profondità concettuale del testo, che spiega in maniera opportunamente sofferta la condizione di stress e la pressione a cui spesso viene sottoposta la nostra mente. Gli armonici dell’intro lasciano presto spazio all’oscura e turbolenta melodia della prima strofa, sulla quale Matt ricama una meravigliosa linea vocale allo stesso tempo triste e potente, che trascina verso il breve ritornello con cui si conclude la prima parte della canzone. Una serie di incantevoli arpeggi apre il secondo “capitolo”, spogliato d’improvviso della potenza dei minuti iniziali e caratterizzato da un’estatica combinazione di voce, basso e batteria, dolci e leggeri, ma così belli e fluidi all’ascolto che potrebbero continuare a lungo senza stancare. Di nuovo il ritornello e gli arpeggi riportano un certo ritmo e preparano quasi l’ascoltatore all’ingresso della terza parte, segnata dagli stessi armonici d’apertura che stavolta però sfociano subito in un assolo quasi esagerato, di tono e intensità crescenti, il quale si intona incredibilmente bene allo stampo cupo e irrequieto del pezzo. Tutt’altro che irrequieta è invece l’ultima parte della canzone, aperta da lentissime e malinconiche note di chitarra, la quale per i lunghi istanti finali verrà abbandonata e sostituita dal pianoforte, insieme ai cui accordi, una batteria insolitamente lieve e una voce nostalgica e sussurrata ci portano in un’atmosfera rassegnatamente serena che chiude tutto quanto. Citizen Erased non è solo da ascoltare, ma anche da capire, ricordandosi che si può restare senza fiato ed essere rapiti dal suo fascino imponente.
Le qualità canore di Bellamy erano certo note, ma non pensavo le sue corde vocali potessero raggiungere picchi quasi lirici in una canzone rock; invece è quanto accade in Microcuts. La settima traccia del disco riassume la potenza di New Born o della stessa Citizen Erased – tanto per fare un esempio – in soli tre minuti e mezzo di durata, e la traduce in un suono completamente diverso e meno complesso, spostandola in special modo sulla voce, in falsetto dall’inizio alla fine: il risultato è assolutamente pazzesco. Gli arpeggi continui delle due strofe, acuti quasi quanto la voce, che nel testo racconta un’esperienza apparentemente allucinata e priva di senso, si legano ai complicati accordi del ritornello sopra i quali Matt canta, urla, lascia a bocca aperta. Quasi volesse farci sentire il suo dolore, spara altissime le note che ci giungono sofferte e taglienti come lame di rasoio, laceranti come una “lavagna graffiata con odio”. Un passaggio intermedio trasporta poi con forza al riff conclusivo, dove la tensione precedente viene violentemente sfogata con un finale davvero hard rock.
Completamente diversa dai due pezzi precedenti, inizia Screenager, la cui particolarità non si riscontra solamente nel titolo, bensì pervade ogni secondo della canzone. La serie di note e accordi, quasi dissonanti, che fanno da intro, accompagnano anche le strofe, eseguite con una particolarità strumentale che vuole imitare forse eccessivamente la musica classica. Il ritornello segue lo stesso andazzo, e mentre il pianoforte, come già in precedenza, subentra all’elettrica ma mantiene gli stessi motivi tanto soavi quanto eccentrici, la voce quasi in sottofondo canta flebile poche parole per lunghi istanti trascinandole all’inverosimile. Una canzone inattesa che per alcuni potrebbe stonare con le altre, per altri potrebbe rappresentare un ottimo spunto alla ricerca della diversità o comunque una buona pausa dal resto dell’album.
Si comincia ad intravedere la fine del viaggio con l’ammaliante Darkshines: la nona traccia di Origin Of Symmetry non si discosta troppo dalla discutibile ma piacevole ballata di Screenager, ma si fa decisamente più aggressiva e rientra nei canoni dell’alternative rock museiano, seppure in alcuni tratti ricordi la musica latina. Una vera canzone d’amore dedicata ad una non precisata (forse inesistente) ragazza dark, nei cui splendenti occhi neri il protagonista della storia rischia di trovare il senso delle cose o anche di perdersi per il loro potere oscuro. Una canzone a tratti veramente impetuosa che colpisce per la sincerità con cui viene presentata, per la spiazzante semplicità di ciò che comunica e per la grinta dolorosa che Matt esprime sulla chitarra, gridando il potere di quegli occhi e facendoci vibrare come non mai.
Probabilmente nemmeno i Muse avrebbero mai pensato di inserire in un loro album la cover di un pezzo soul, una musica, uno stile che certo non sembra adattarsi alla loro pungente immagine di paladini del rock sperimentale… Eppure ciò che è uscito dalla rivisitazione di Feeling Good (l’originale è di Nina Simone, scomparsa poco tempo fa) è uno dei pezzi più sorprendenti di tutto l’album. Questo power soul da paura, che inizia piano piano e cattura lentamente per esplodere di botto con l’entrata di basso e batteria che quasi soffocano il pianoforte, si maschera perfettamente per aderire alle tipiche forme dei tre giovani artisti e dipinge un brano assolutamente ispirato, che pur facendo a meno dei fiati mantiene intatto il proprio stampo originale e costituisce un’opera memorabile.
E per concludere in bellezza, si poteva scrivere qualcosa di meglio di una bella critica alla religione e affini? È questo che avranno pensato i Muse quando hanno composto Megalomania, soprattutto quello che avrà pensato Matt mentre registrava la parte di organo in una chiesa anglosassone seduto davanti a un bel crocifisso, situazione piuttosto singolare e alquanto dark per un ateo. A parte questo, la canzone è spettacolare: la voce gravissima viaggia mollemente sulle meste e altalenanti note dell’organo, che si alzano d’improvviso per il ritornello quando anche il cantato sale in un crescendo da vertigine, per poi ripiombare nell’oscurità con la seconda strofa. Dopo l’ultimo chorus, un finale supertirato di scream in parte in falsetto, in parte a voce piena, accompagnato sempre dall’organo che rimane sospeso fino in fondo, conclude questo capolavoro in maniera davvero epica. Quasi un’ora di grande musica, a tratti impegnata, a tratti meno, che accompagna, ispira, incupisce, scatena chi la ascolta per ogni secondo. Origin Of Symmetry è un disco talmente bello e originale che neanche i Muse stessi sapranno forse superarlo, sperando non cadano nella tentazione di scopiazzarlo di nascosto per bissare il loro successo. Showbiz, un prodotto sicuramente più giovanile e genuino, traeva spunto in molti brani da melodie latine e spagnoleggianti; questo album attinge a piene mani dalla musica classica e la fonde meravigliosamente bene con un rock più maturo ma che si discosta molto da quello britannico in stile Oasis; con Absolution si rimane più o meno sugli stessi stili ma vengono aumentate le parti orchestrali, e pur essendo di elevata qualità il prodotto finale sa un po’ di minestra riscaldata; cosa ci proporrà in futuro l’ormai famosissimo trio? Sperando non vengano accecati dalle luci del successo, nel frattempo mi voglio godere i momenti passati in cui Matthew Bellamy urlava sul palco le proprie emozioni impugnando la sua chitarra argentata e sparando nell’aria note leggendarie, in cui la sua figura si stagliava scura e appuntita contro il cielo nero e risultava come non mai perfetta e a proprio agio in tutta quella tensione, i momenti in cui i Muse, forse, erano quasi riusciti a raggiungere l’origine della simmetria.

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Gabriele Toninelli

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