Pearl Jam - Riot Act
Agosto 1991, Ten.
Novembre 2002, Riot Act.
In mezzo altri cinque dischi di studio, un live, 72 bootleg “ufficiali”, collaborazioni importanti (Neil Young e The Who su tutti), l’appoggio a Nader, candidato ecologista alle ultime presidenziali americane, un solo video ufficiale dopo Ten e prima di questo album, nove morti tra il pubblico di Roskilde…
Tutto questo (e non solo) sono i Pearl Jam.
Sembrerà strano che la recensione di un album parta con il riassunto della storia del gruppo che l’ha pubblicato, può sembrare che il valore del disco sia determinato solo da essa, magari qualcuno penserà che il disco fa cagare ed è meglio parlare d’altro, anche perché è un disco ormai “vecchio” secondo i canoni del consumo musicale, essendo uscito da diversi mesi, e invece…
Invece Riot Act è un gran disco rock. Punto. Forse il disco che Eddie Vedder e i suoi cercavano di fare dai tempi di No Code, il quarto della serie, per il modo in cui concilia lo spirito più classico del rock con le sperimentazioni sonore e le invenzioni di ottimi musicisti quali tutti i componenti dei Pearl Jam sono. Ad esempio, per la prima volta in un loro disco, a impreziosire la parte strumentale ecco tastiera Hammond e piano, che hanno un ruolo rilevante in diversi brani.
La voce di Eddie Vedder, invece, è virata su tonalità ancora più basse e intimiste del solito, pronte però a passare ad altri registri quando la rabbia o il dolore non riescono più a essere trattenuti.
Un disco di canzoni, quindici, scritte senza l’assillo del singolo acchiappavendite a tutti i costi (anche se il video, peraltro semplicissimo, di I Am Mine è andato in heavy rotation su MTV), ognuna con qualcosa da dire.
«Immagino che non ci sia niente di male in quello che dici, ma non spacciarmi che “non c’è un modo migliore”» canta Vedder in Green Disease. In Bu$hleaguer attacca la politica di George Dabliu, accusandolo di difendere solo i propri interessi attraverso menzogna e paura. In All Or None, il lentone finale che come sempre chiude l’album, se la prende con la propaganda militarista che pretende di mettere da parte i diritti civili in nome della sicurezza e della lotta al terrorismo: «Ecco la confessione altruista che mi riporta alla guerra, possiamo evitarlo? Le nostre destinazioni sono quelle in cui siamo già stati».
I morti di Roskilde, e tramite loro il tema della sofferenza umana, spesso insensata, vengono ricordati in Love Boat Captain e nel grido di dolore di Arc.
Ma il tema dominante del disco, come altre volte, è la ricerca e l’affermazione della propria identità. L’identità dell’uomo di fronte ai grandi poteri e alle grandi forze che scuotono il mondo («Non aspetterò le vostre risposte, non potete tenermi qui» è una frase del brano d’apertura Can’t Keep), l’identità nella coppia (credo che You Are sia la quinta canzone di tutto il repertorio dei Pearl Jam veramente d’amore) e l’identità musicale di cinque ragazzi di quarant’anni la cui musica è prima stata giudicata come rivoluzionaria, poi è assurta al ruolo di classico e adesso fa storcere il naso a qualcuno di fronte ai “soliti” Pearl Jam. Quando magari tutto quello che hanno sempre voluto fare è stato suonare per pensare al mondo come un posto migliore e allontanare per un po’ lo schifo là fuori.
Considerazione particolare va attribuita come al solito al packaging del cd e al libretto: la copertina e le foto interne sono di Jeff Ament, il bassista, in particolare le figure che bruciano in copertina sono il re e la regina di una scacchiera scheletrica, il cd è in confezione cartonata con busta interna per il libretto, i testi sono come sempre battuti a macchina con le correzioni manuali degli autori (i testi non li scrive solo Vedder, ma spesso nascono da più componenti e stavolta una canzone è tutta di Cameron e un’altra solo di Ament), tutti motivi per acquistare l’originale anche se l’album in Internet si trovava già a settembre, del resto i Pearl Jam hanno abituato i loro fan a prodotti di qualità, musicale e non solo, e una volta preso il vizio è difficile farne a meno, ecco perché continuano ad attirare un pubblico sempre nuovo, anche con i vecchi album o con operazioni come quelle dei bootleg; un pubblico forse non numerosissimo come potrebbe essere se accettassero qualche compromesso, ma sicuramente affezionato ed entusiasta, e questo disco è un ulteriore tassello nella costruzione di una vera e propria epopea del rock.
«I know I was born and I know that I’ll die / The in between is mine / I am mine».
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