La stella che non c'è
La stella che non c’è è un film sull’assenza. Ma non sull’assenza di questo o di quello; non su quel genere di assenza che pur potrebbe essere colmata, perché è un mancare di qualcosa. L’assenza di cui ci narra Gianni Amelio è pura e semplice, incolmata e incolmabile. Il titolo stesso ce lo annuncia sin dal principio, con quel “non” che percorrerà l’intera narrazione fino a condurci, alla fine del film, a chiederci quale sia poi la stella che non c’è. E a capire, inevitabilmente, che non vi è risposta a questa domanda.
Il protagonista del film è Vincenzo Buonavolontà (interpretato da un ottimo Sergio Castellitto), manutentore di macchinari in un’acciaieria in dismissione, smantellata e venduta pezzo a pezzo ad acquirenti cinesi; accortosi di un pericoloso malfunzionamento in una macchina responsabile già di numerosi incidenti, decide di partire alla volta della Cina per ripararla lui stesso. Inizia così il lungo viaggio di Buonavolontà verso la propria diminuzione, in una Cina incomprensibile, eppur regolata da leggi ferree, caotica ma popolata da individui taciturni, potenza mondiale, somma di un miliardo di debolezze. L’unica sponda che troverà nell’interminabile errare da una metropoli all’altra sarà un’interprete conosciuta in Italia, Liu Hua, che lo accompagnerà nella sua ricerca e proverà ad aprigli le porte di una civiltà ignota e inaspettata.
Quello della ricerca del macchinario è però solo un pretesto. L’autentica cifra della pellicola di Amelio si esprime nei lunghi silenzi, nella rarefazione del tempo narrativo, nei primi piani che indugiano sui volti, nei toni pallidi della luce e nel grigio del cielo che fa da sfondo ai paesaggi.
La grande intuizione di Amelio è che tra milioni di volti, desideri e storie, nella moltitudine delle parole pronunciate e delle urla, l’unica cosa che sia possibile udire è il silenzio.
Le vicende personali dei due protagonisti sono lasciate sullo sfondo; i loro drammi emergono appena, talvolta li si intuisce ma perlopiù rimangono indeterminati. I due stringono un rapporto di forte solidarietà, ma non fanno cenno alle loro storie che in una fugace occasione; in definitiva rimangono tra loro degli sconosciuti. La loro interiorità non si dischiude, è sospinta in un profondo insondabile, scompare.
Centinaia di comparse calcano le scene di La stella che non c’è: negli aeroporti, nei grattacieli, nei condomini che ospitano ottomila persone, nei treni, sulle navi che percorrono il fiume azzurro, nelle interminabili code di veicoli sulle strade di montagna; Amelio non cede alla tentazione, non ci narra di nessuno di loro.
Di chilometro in chilometro, Buonavolontà si rimpicciolisce, diventa più stanco e assente. Emblematica è la scena, comica solo in apparenza, in cui Liu Hua veglia il sonno di Buonavolontà, su un autobus. Un ragazzo seduto sul sedile accanto le chiede di dove sia lo straniero; lei risponde che è italiano. Il ragazzo, perplesso, replica: «Ma gli italiani sono iracheni?». La ragazza dice di no e gli chiede se sa dove si trovi l’Italia. Lui le risponde: «Molto lontano».
A essere rappresentata è la vertigine dell’alterità, della moltitudine e della sparizione. Solo in superficie La stella che non c’è è una denuncia della società cinese e della dinamica di spersonalizzazione del sistema produttivo industriale. E certo può essere interpretato anche alla luce del tema dell’incontro di culture, o essere colto come un malinconico invito alla tolleranza. Nel film di Amelio vi è persino una pulsione documentaristica, che in meno di due ore squaderna dinnanzi allo spettatore una realtà sociale e culturale estremamente composita e a noi pressoché sconosciuta. Il più alto contenuto del film sta però nella sua rappresentazione della piccolezza dell’agire e del patire degli uomini, nella contemporanea allusione alle loro profondità assenti.
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