Jules e Jim
The Dreamers, l’ultimo meraviglioso Bertolucci, ne prende la trasgressione, la parte nuda. Dopo mezzanotte, un bel film italiano della passata stagione, passato un po’ in sordina, ne prende l’innocenza, tanto da citarlo. Il regista Davide Ferrario ne fa raccontare la trama a uno dei protagonisti. Non ne dice il titolo, però.
Viene tutto da lì. Il “triangolo” sentimentale nella sua forma (cronologicamente) prima e (perfettamente) ultima. La possibilità di realizzare l’Amore Supremo Definitivo che finisce, shakespearianamente, in tragedia, tragedia dell’ordinarietà prima ancora che della stra-ordinarietà: suicidio del cuore prima che del corpo.
Tutto questo (e moltissimo altro) è Jules e Jim di François Truffaut, semplicemente uno dei più bei film della storia del cinema. Quando l’ha girato, nel 1961, Truffaut aveva ventinove anni; dopo la carriera di critico cinematografico nei Cahiers du cinéma, aveva deciso (assieme ad altri della sua generazione, che saranno poi i registi della Nouvelle Vague: Godard, Rivette, Chabrol, Resnais, Rohmer…) di guardare dall’altra parte dell’occhio: aveva esordito nel 1959 con il capolavoro I quattrocento colpi, cui era seguito, l’anno dopo, Tirate sul pianista. Si apprestava, dunque, a realizzare la sua terza opera, con un budget decisamente ridotto, una troupe di appena ventidue persone e tanti momenti di difficoltà durante le riprese, tanto che l’attrice protagonista Jeanne Moreau partecipò poi alla produzione, in uno dei momenti di “magra” assoluta. Interessante il fatto che il film sarebbe potuto (e forse dovuto) essere l’esordio dietro la macchina da presa per Truffaut: Jules e Jim è infatti un adattamento di un romanzo di Henri-Pierre Roché, che Truffaut aveva letto e immaginato di trasporre su pellicola ben prima de I quattrocento colpi.
Primi anni del XX secolo. Jules e Jim, dandy eccentrici (il primo è tedesco, il secondo francese), stringono a Parigi una raffinata Amicizia, fatta di discussioni elevate come di scambi frivoli, di speculazione fine a sé stessa come di boxe, di caffè nei circoli culturali come di donne prese/perse.
L’equilibrio iniziale è sconvolto dalla vera e propria invasione che la vita dei due amici subisce da parte di Catherine, la donna che ha lo stesso sorriso di una statua greca che i due hanno amato durante un viaggio. Se il ménage à trois sembra, inizialmente, poter funzionare (e la prima mezz’ora di film è gioia pura, poiché è la messa in scena di questo “triangolo” perfetto), si rivelerà poi drammaticamente irrealizzabile. Il primo ostacolo, la prima asimmetria, nasce dal matrimonio tra Jules e Catherine e dalla terribilmente prevedibile stanchezza di Catherine, spirito talmente libero da dare l’impressione di essere imprigionata dalla sua stessa libertà, sempre troppa o troppo poca, anelata e mai raggiunta, con conseguente infelicità («Si dovrebbe essere sempre innamorati. Questo è il motivo per cui non ci si deve mai sposare», scriveva Oscar Wilde).
Passata la Prima guerra mondiale come fosse una pioggerellina (l’unica preoccupazione di Jules e Jim, facenti parte di opposti schieramenti, è quella di non uccidere per sbaglio l’amico), i tre si ritrovano nella casa di campagna di Jules e Catherine (che hanno una bambina), e qui la donna, che già tradiva il marito, riscopre il suo Amore per Jim. Jules è al corrente di ciò, ma la sua unica, vera paura è quella di perdere Catherine, di non poterla più vedere.
Resta poco: una nuova coppia nascerebbe, la terza nel film, ma il dramma finale farà consumare tutto nella morte, insensata quanto opportuna.
Il film sull’irraggiungibilità dell’Amore è contemporaneamente il film del trionfo dell’Amicizia. Laddove anche quello che viene considerato il più alto e forte dei sentimenti fallisce, l’Amicizia rimane, salda come una roccia. Jules e Jim si trovano, in periodi differenti, a essere Amici oppure ad amare la stessa donna, ma il loro legame è indissolubile: mai una parola fuori posto tra i due, tantomeno un insulto (mentre abbiamo testimonianza diretta, da parte di Jules, di come Catherine abbia con lui sbotti violenti, a più riprese). I due uomini non arrivano mai, addirittura, a darsi del “tu” (quello sì, invece, è appannaggio esclusivo degli Innamorati). Ma l’importante è che questa eleganza esteriore non cela un livore interiore: è completamente sincera, pura forma che si fa contenuto con il solo fatto di esistere.
Il primato pare dunque essere dell’Amicizia sull’Amore. Del resto, rimarcando ancora una volta la sua prepotenza (pur nella sua insicurezza), Catherine si prende quasi interamente la locandina del film, come a dire: «Sono io il centro di tutto». Ma il film non può che portare i nomi dei due Amici.
Al grandissimo valore narrativo, che rende Jules e Jim uno dei film più influenti di tutti i tempi, si aggiunge l’altrettanto grande valore cinematografico, che, parallelamente, fa del capolavoro truffautiano una pellicola che lancia un nuovo utilizzo della cinepresa e delle figure cinematografiche: la manipolazione dell’immagine, frequentemente accelerata, rallentata, fermata, tagliata, mascherata, dissolta, porta con sé un linguaggio “altro”, che, nella sua palese artificiosità, ci restituisce però la sensazione paradossale di aver assistito a qualcosa di assolutamente realistico, di più, qualcosa di documentaristico. Proprio laddove il montaggio si mette in luce in quanto tale, quindi in quanto artificio, il risultato che rimane nella mente dello spettatore è fluido, chiaro, si direbbe quasi “oggettivo”. In questo, siamo senza ombra di dubbio aiutati (se non addirittura suggestionati) dalla voce narrante, quarto personaggio in ordine di presenza, ma forse primo in ordine di importanza. Non solo il narratore (maschio) ha l’onniscienza di chi sta raccontando qualche cosa di già accaduto, ma è soprattutto come ciò viene raccontato che lascia disorientati (ma allo stesso tempo consci di aver assunto un preciso punto di vista): la voce, infatti, assomiglia, soprattutto ai nostri occhi di spettatori più o meno smaliziati, una quarantina d’anni dopo, a quella dei vecchi documentari dell’Istituto Luce, e ha un tono pressoché cronachistico, come se – mi è venuto in mente già durante la visione del film – i tre soggetti presi in considerazione non fossero esseri umani, ma animali. Ciò, attenzione, non significa che il narratore abbia una posizione di superiorità intellettuale rispetto ai tre protagonisti “fisici”: significa soltanto che, non tradendo la minima emozione nell’esposizione dei fatti, la voce off è come avulsa dalla vicenda, tanto da chiedersi (impossibile ottenere risposta) il perché questa voce “decida” di raccontarci questo frammento di vita anziché un altro. A questo proposito, l’episodio che rimane più impresso è forse il momento, unico nel film, in cui il narratore riporta il discorso diretto di Catherine e Jules: «Lei diceva sì, sì, sì, lui diceva no, no, no», ma quei sì e no sono riportati con un tono di voce talmente distaccato da creare una contraddizione in termini (un “tono atono”).
Questi, spero, i concetti-chiave del film. Truffaut, regista dell’infanzia, che tante volte ha messo in scena personaggi bambini (anagraficamente ma anche spiritualmente), compie, con Jules e Jim, un passo fedele alla propria poetica: ci mostra una storia in cui l’Amore (insisto con la maiuscola, nonostante ciò che segue) può finire, logorarsi, diventare altro, essere pugnalato dalla routine, dalla quotidianità; l’Amicizia, invece, rimane, imperitura, immutabile come l’Essere parmenideo: come tutte quelle, magari non tante ma eccome se ci sono, che si stringono da bambini e durano per tutta la vita. Per l’Amore il discorso è diverso. E non ce l’ha ancora spiegato nessuno (forse perché non c’è niente di spiegabile), come fare a dargli la stessa tempra, eterna, dell’Amicizia.
Scrivo per ultime, da appassionato di seghe mentali palindromiche quale sono, le prime parole del film: «M’hai detto t’amo, ti dissi aspetta, stavo per dirti eccomi, tu m’hai detto vattene».
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