DCA6 - Diciassei
«Ci son giorni che / Mi sento impazzire»… In due versi della rabbiosa opening track, La Haine (citazione dal gran film di Kassovitz?), il punto nodale dei DCA6. Il loro crossover particolarmente hardcore consta di riff incazzati e dal suono spesso “industriale” (a volte, certe intrusioni di scratching o distorsioni ricordano gli Slipknot), accompagnati da una voce non semplicemente “rappata”, che all’occorrenza si tinge di emozionale. Insomma, attacca La Haine (dopo un’intro di mezzo minuto in cui un suono di sottofondo si ripete ossessivamente) e musicalmente è rabbia pura, ma il testo rivela ben più di quanto non faccia il titolo, nonostante uno dei versi più “sentiti” sia proprio «Quello che sento è solo / Odio». Quella che viene cantata è una situazione di disagio del vivere («E così non esco da questo vuoto / Resto qui, perdo tempo / Ricominciando»). Il testo passa dall’italiano all’inglese e viceversa, fattore costante in tutto l’album.
Non il tempo di un respiro, parte subito Nec Ente (99), cambi di ritmo (cosa che si ritrova del resto in tutto il disco), suoni distorti, stacchi di basso, e anche qui almeno un paio di versi interessanti e palesi nel loro significato: «Le menti sono ferme mentre i loro corpi ballano / Mentre i loro corpi ballano»… Guest: riff degno dei Linea 77, molto scratching, non si rinuncia a un must di genere, cioè la voce distorta e “telefonata”… Mentre i piatti viaggiano, la voce si ammorbidisce e poco dopo ritorna più furiosa di prima, gli stessi versi sono ripetuti in entrambe le modalità, quasi a sottendere una doppia identità.
Dopo lo scherzetto di qualche secondo di musichetta da freakshow, arriva Greenhorn, sincopata nelle strofe, più vagamente melodica nel refrain, salvo poi, come già detto, rimettersi la faccia della rabbia: «You want you want to / Fuck me», «Do you want my soul / But you don’t know my soul / Motherfucker».
I primissimi secondi di S.B.H. lascerebbero pensare al quinto anger attack del disco, e invece succede quello che non ti aspetti: dove la rabbia dovrebbe decollare, al secondo numero 9 della traccia, parte invece una bella ballata pianistica, lunga più di un minuto, malinconica, suonata davvero con l’anima. E al secondo numero 80, è il momento di tornare a spaccare il culo: la prima chitarra va giù pesante, la voce ritorna “doppia”, in sottofondo il suono industriale e distorto… Il testo è forse uno dei più pessimisti del disco, non si ritrova un barlume di speranza neanche in fondo al pezzo. È il giusto preambolo all’ultima traccia.
Out Of Dream chiude il disco come si deve: le caratteristiche dei brani precedenti si ritrovano puntualmente, il testo tocca il fondo del presomalismo, senza però risultare stucchevole. Belli i versi del refrain, «Per te non c’è miele / Soltanto un mucchio di polvere», la voce all’inizio sembra davvero provenire da un qualche sogno (incubo?), così come il basso e i suoni particolari di centro traccia. E ancora: «I look around and I see nothing / I look inside and I see nothing», insomma, all’interno e all’esterno, c’è sempre poca speranza.
Dopodichè, dieci minuti di silenzio e la ghost track, trenta secondi di parlato.
Un disco di un gruppo emergente, ben registrato, fresco, contenente idee proprie e non “clonate”: ascoltatelo sicuramente se siete appassionati del genere; ma anche se non lo siete, ci troverete del buono.
Commenta